Due braccia che si intrecciano in un abbraccio spezzato. Sono due migliori amiche, due ragazzine che camminano insieme, aggrappate l’una all’altra, mentre passeggiano in mezzo a poche baracche. Non è solo la complicità a legare quelle braccia, ma anche una solidarietà tutta speciale. Una ragazzina aiuta a camminare la sua migliore amica, Dhan Maye Milhar, malata di focomelia, una grave malformazione degli arti che le ha lasciato un solo braccio non completamente sviluppato. Il simbolo dell’amicizia e della solidarietà è stato catturato dall’obiettivo di Christian Tasso, giovane fotografo di reportage, autore di una delle dieci foto della mostra Images of Ability esposta al quartiere generale dell’ONU a New York, in occasione della giornata internazionale della disabilità del 3 dicembre.
Lo scatto è tratto dal progetto Quindicipercento, questa la percentuale di persone disabili nel mondo, un percorso iniziato lo scorso febbraio e che sta conducendo Christian Tasso in giro per il mondo per capire cos’è la disabilità nel mondo, come queste persone vivono e quali sono le politiche nazionali e internazionali rivolte alla disabilità. Abbiamo parlato con lui per capire come questo giovane fotografo italiano riesca a far uscire la normalità da tutto quello che viene considerato “anormale”.
Chi è Dhan Maye Milhar?
“Dhan è una ragazzina che vive, insieme alla sua famiglia, in un villaggio di spaccapietre vicino a Dhading Besi, in Nepal. Raccolgono pietre sul letto del fiume, le spaccano e le vendono al mercato dell’edilizia per 50 centesimi di dollaro al giorno, quel poco con cui comprano qualcosa da mangiare. Lei non può lavorare perché non avendo gli arti non può spaccare le pietre, quindi passa il tempo cercando, per quello che può, di dare una mano dentro casa. Dhan, come la sua famiglia, appartiene a una casta molto bassa e quindi non possono avere nemmeno l’aspirazione di andare via, ma anche se fosse non potrebbero perché sono un po’ schiavi della loro stessa condizione”.
Cosa racconti di lei in questa foto?
“Io non saprei dirti cosa racconto con la fotografia. Quando faccio le foto racconto come mi sento in quel momento e anche molto di quello che vedo di fronte a me. Ho scattato questo momento intimo fra di loro: un abbraccio spezzato. Questa ragazzina che abbraccia l’altra in una continuità che si interrompe con il braccio mancante”.
Perché hai deciso di parlare di disabilità?
“Mentre facevo la prima esperienza di reportage sui disabili, mi sono reso conto che non c’era un approfondimento mondiale dal punto di vista giornalistico che raccontasse come la disabilità viene percepita nei vari contesti sociali e come i governi applichino la Convenzione per i diritti delle persone con disabilità. Esistono studi sulla disabilità nel mondo che contengono dati approfonditi, ma molto tecnici. L’idea è quella di sensibilizzare la gente comune, quella che non leggerà mai quegli studi, ma che poi è la stessa che effettivamente discrimina o no le persone. Sullo sfondo della tua foto in bianco e nero compare il villaggio di spaccapietre in cui vive Dhan”.
Quanto il contesto incide sulla disabilità o, addirittura, crea disabilità?
“L’ottanta per cento delle persone con disabilità vive in paesi del Terzo Mondo, perché la povertà è causa e conseguenza di disabilità. Nascere in una condizione di povertà aumenta in maniera esponenziale le possibilità di avere una disabilità. Ad esempio, quando ero in Nepal è successo che una ragazzina si era rotta un braccio, perché era caduta da un tetto. Vivendo in un posto senza medici non si è potuta curare. Così il braccio rotto è andato in cancrena e le hanno dovuto amputare il braccio, perché oramai era troppo tardi per andare dal medico”.
Sembra che i tuoi reportage fotografici non nascano dal racconto di una macchina fotografica che osserva da fuori, ma da un obiettivo che entra nella realtà, vivendola. Che tipo di coinvolgimento personale prevedono i tuoi lavori?
“Il coinvolgimento personale è tutto. La macchina fotografica è l’ultima cosa. Per me è stato sempre così, fin dall’inizio. La fotografia è l’occasione per vivere tante vite e portarmele via: ogni storia è un pezzetto anche di me. La prima cosa è calarmi nella realtà che vado a raccontare: mangiare con le persone e vivere con loro, capire il loro contesto, cosa vivono, cosa provano, le ingiustizie che vivono oppure quali sono le loro gioie. Poi, alla fine, faccio una summa con la fotografia”.
Tra 150 scatti provenienti da tutto il mondo è stata scelta, insieme ad altre nove foto, anche la tua. Cosa significa per te?
“Per me è una cosa molto importante, perché significa che sto andando nella direzione giusta. Uno dei problemi maggiori quando fai questo tipo di fotografie è il rischio di cadere nel pietismo o nella spettacolarizzazione del dolore. Io sto cercando di guardare oltre. Se vedo una persona che non ha un braccio non per forza voglio fotografare il fatto che non ha il braccio e far vedere quanto soffre. Piuttosto, voglio far passare il messaggio che nonostante lei non abbia un braccio, riesce ad andare avanti senza problemi e a vivere una vita dignitosa, perché ha una dignità come tutti gli altri. Dall’inizio di questo progetto ad ora per me è sparito il concetto di disabilità. Mentre prima se mi chiedevi cosa fosse un disabile avrei detto che è quello in carrozzina, quello che non riesce a camminare, ora non riesco a vedere questa differenza. Siamo tutti esseri umani con caratteristiche diverse e una persona che non ha un braccio non è diversa da me che sono castano o da un ragazzo biondo. Siamo tutti diversi”.