Le copie, generalmente, sono più scadenti dell’originale. Le repliche, o i sequel, di film o libri di successo sovente deludono. A seguito dell’orrendo atto terrorista del 13 novembre, la Francia si proclama oggi impegnata nella sua war on terror in Medio Oriente, vota il suo patriot act, e tra le fila dei suoi dirigenti c’è chi parla dell’apertura prossima di una sua Guantanamo.
Per un paese che si era trovato in testa al plotone degli avversari sferzanti del patriot act americano, della war on terror di George Bush e di Guantanamo, la nemesi è crudele. O almeno, lo sarebbe se qualcuno facesse mostra di voler imparare qualcosa dalla storia.
Gli attentati dell’11 settembre non c’entravano nulla con l’Iraq. Gli attentati del 13 novembre c’entrano poco con la Siria. C’entrano un poco, nel senso che in Siria qualcuno dei capi dell’ISIS pensa di potersi servire dell’ansia distruttiva, del cupio dissolvi, di un manipolo di malati per poter distrarre l’attenzione generale da quel che succede sul campo di battaglia. Alcuni specialisti hanno fatto notare che da qualche tempo – grossomodo dall’arrivo dei russi – l’ISIS ha fatto proprio il modus operandi di al Qaeda di “esportare” il terrore probabilmente perché seriamente in difficoltà sul terreno delle operazioni.
Ma è all’altro capo del filo che l’equazione “terrorismo in Francia = guerra in Siria” non funziona. Persino la qualifica di terroristi sembra gratificare più del dovuto gli individui che hanno colpito in Francia. Come ha detto a Le Monde lo psicopatologo Fethi Benslama, specialista della “reinvenzione” dell’islam, “l’offerta jihadista cattura dei giovani disperati a causa di gravi vuoti identitari; propone loro un ideale totalizzante che colma quei vuoti, permette una riparazione di sé, o addirittura la creazione di un nuovo sé, cioè, in altri termini, una protesi di fede che esclude ogni tipo di dubbio”. Ma, prosegue lo studioso, “quei soggetti cercano la radicalizzazione prima ancora di trovare il prodotto”. E cita l’esempio di quei disperati che, prima di partire per la Siria, avevano comprato su Amazon copie di Islam for Dummies e di Koran for Dummies.
D’altronde, che l’impegno della Francia in Siria non c’entri nulla con gli attacchi terroristici è dimostrato dalla minaccia che ha pesato per tre giorni su Bruxelles. Il Belgio non è impegnato in Siria, e i suoi terroristi locali avrebbero dovuto cercarsi un altro pretesto.
Non è intensificando i bombardamenti sulla Siria che la Francia può risolvere i problemi di terrorismo in casa propria. Per farlo, sono molto più efficaci dei buoni servizi di sicurezza. Per di più i francesi, in quel tipo di attività, si sono storicamente dimostrati molto efficaci. Negli anni Sessanta hanno impietosamente smantellato l’organizzazione terrorista OAS nonostante che molti dei suoi membri facessero parte di quello stesso sistema di sicurezza, militare e civile, incaricato di liquidarli. Agli assassini di oggi mancano le motivazioni, il radicamento, e soprattutto gli appoggi di cui godeva l’OAS; quindi, a meno di supporre una drammatica caduta di qualità delle strutture di sicurezza francesi, non dovrebbe essere tecnicamente impossibile liquidarli.
La Francia, però, approfitta oggi della ferocia inconcludente di quegli assassini per giustificare la propria presenza nella Grande Siria, come gli Stati Uniti avevano approfittato della ferocia inconcludente degli assassini dell’11 settembre per andare in Iraq. Gli Stati Uniti, pur essendo gli Stati Uniti, pur avendo una strategia, e pur non trovando altre potenze sulla loro strada, in Iraq hanno combinato un disastro, e gettato le basi per la diffusione del terrorismo nella regione. La Francia non è gli Stati Uniti, non ha una strategia, e trova, nella Grande Siria, un terreno su cui si sono già gettate altre potenze, che non fanno mistero della loro reciproca ostilità. Tutto questo, alla luce del precedente del 2003, non lascia presagire nulla di buono.
L’abbattimento dell’aereo russo da parte dei turchi segna molto probabilmente la fine della brevissima stagione – neppure dieci giorni – dell’unanimismo di facciata seguito agli attacchi del 13 novembre. E segnala che ogni potenza, grande e piccola, è coinvolta nella guerra per ragioni che nulla hanno a che vedere con la lotta al terrorismo. Per restare ai due protagonisti dell’ultimo, gravissimo, incidente: la Turchia ha garantito per mesi agli aspiranti tagliagole del mondo intero il libero ingresso in Siria dal proprio territorio; e quando si è messa a fare la guerra, l’ha fatta soprattutto ai curdi, cioè agli unici in grado di far recedere l’ISIS sul terreno, risparmiando sostanzialmente l’ISIS. La Russia è intervenuta con la sua nota brutalità, colpendo soprattutto altri movimenti ostili ad Assad, piuttosto che l’ISIS. Lo stesso Assad, d’altronde, pare che abbia in più occasioni “favorito” l’ISIS rispetto ad altri gruppi a lui ostili, perché rappresenta il nemico ideale, quello che lo promuove a campione della lotta contro il terrorismo. E perdipiù, sembra che lo finanzi pure, attraverso l’acquisto del petrolio prodotto nei territori occupati.
Ma anche l’Iran, in una certa misura, ha bisogno dell’ISIS: per giustificare la propria presenza militare in Iraq e per spingere Washington verso accordi sempre più stretti con Teheran. E naturalmente, ne hanno bisogno l’Arabia Saudita e il Qatar, impegnati da anni in un gioco al rialzo nel sostegno a movimenti islamisti di varia natura, per combattere l’influenza iraniana, e per combattersi vicendevolmente.
Come si vede, il terrorismo non interessa a nessuno, se non come spauracchio per giustificare la propria azione. In queste condizioni, la guerra, e il terrorismo, non possono che prosperare ulteriormente.