Da dieci mesi, dopo gli attacchi di gennaio, le autorità francesi non hanno mai smesso di avvertire che ci sarebbero stati altri attentati. Qualcuno sembra abbia detto, nei giorni scorsi, che la cosa era imminente.
Nessuno, quindi, può essere sorpreso dagli avvenimenti di Parigi. Sorpreso, sgomento e nauseato dalle dimensioni e dal modus operandi, sì, ma non dall’avvenimento in sé. Polizia, servizi segreti, specialisti, governo, politici e media sapevano, e sanno, che sono in circolazione in Francia alcune centinaia di persone per le quali l’assassinio indiscriminato è diventata l’unica e l’ultima ragione di esistenza.
Non ci dilungheremo qui sulle ragioni di questi individui, che hanno a vedere col bisogno di riempire un vuoto esistenziale pauroso – nel duplice senso del termine. Quel che è invece estremamente urgente, oggi, è guardare al risvolto politico delle stragi di venerdì sera; al rischio, sempre più incombente, che le reazioni possano, invece di rasserenare gli spiriti, eccitarli e spingerli ad un inasprimento delle relazioni civili e sociali in Francia.
Le prime reazioni e valutazioni politiche, infatti, vanno essenzialmente nella direzione voluta dai terroristi. La storia e la vita politica ci hanno insegnato che, di solito, i terroristi ottengono il risultato opposto a quello voluto; a meno che coloro che sono chiamati a combatterli non finiscano invece, volontariamente o meno, per dar loro ragione.
La proclamazione dello stato d’emergenza sull’intero territorio nazionale francese, per la prima volta dopo la fine della guerra d’Algeria, è una parziale sospensione dei diritti costituzionali, cioè di quei diritti che gli assassini di venerdì aborrono e combattono. Per qualche giorno, la società francese sarà, un po’ più prossima al loro ideale di società, una società in cui gli individui vivono in stato di supina dipendenza e sottomissione all’autorità, fisica o metafisica che sia.
Le dichiarazioni dei vari responsabili politici che elevano gli assassini al rango di jihadisti, o di guerrieri di una guerra santa, equivalgono ad un riconoscimento di fatto delle loro allucinazioni paramilitari. Non è questione qui di esprimersi sulla loro buona o mala fede degli assassini, ma di osservare che i capi di Stato, di governo e anche di religioni mondiali, quando usano la terminologia bellica, offrono a quegli assassini una legittimazione oggettiva. E riconoscono, implicitamente, un’esistenza politica al cosiddetto “Stato islamico”. Le conseguenze di un tale riconoscimento – questo deve essere ben chiaro – non saranno giocate sul terreno della lotta contro il terrorismo e contro il crimine organizzato, ma nella lotta fra gli Stati, in Medio Oriente e altrove.
Un altro degli obiettivi dei terroristi è di scavare un fossato tra i francesi di tradizione cristiana e i francesi di tradizione musulmana, e di accendere il conflitto tra gli uni e gli altri. Da anni, se non da decenni, è in corso in Francia una sistematica stigmatizzazione delle tradizioni e delle credenze della sua popolazione di cultura musulmana. Dalle imposizioni vestimentarie si è arrivati fino, in certi sporadici ma significativi casi, a vietare il doppio menù nelle scuole elementari che servono carne di maiale. Alcuni politici – a dispetto della tanto conclamata laicità – parlano ormai senza ritegno della Francia come di un paese “di tradizione cristiana”, o addirittura di “razza bianca”. Insomma, fanno di tutto per far sentire i francesi di tradizione musulmana – tra il 5 e il 10% della popolazione – come stranieri in patria, pur continuando ad esigere da loro una inconcussa fedeltà ai valori – laici, repubblicani, cristiani e bianchi – della Francia immortale.
Gli attentati di venerdì sera saranno molto probabilmente il pretesto per scavare un po’ di più quel fossato. E per dar soddisfazione, anche in questo campo, agli squinternati desiderata degli assassini sanguinari.