Nel recente incontro romano tra Fao, l’organizzazione delle Nazioni Unite per agricoltura e cibo, e l’imprenditoria che collabora alle sue iniziative, è risaltato come i mutamenti nelle politiche per lo sviluppo stiano favorendo la progressiva uscita dalla fame dei paesi più poveri, e l’ingresso degli emergenti sul mercato competitivo. Dei tre elementi che storicamente hanno sostenuto lo sviluppo, è in deciso ripiegamento l’aiuto pubblico dal cosiddetto Nord al cosiddetto Sud. Ben altro risultato stanno avendo gli investimenti imprenditoriali (spesso in collaborazione pubblico-privato e in partenariato imprese locali-imprese estere) e le rimesse degli emigrati.
Come pubblicato nel rapporto Fao dello scorso maggio, negli ultimi 25 anni 216 milioni di persone sono uscite dalla categoria degli affamati cronici. In soli 15 anni, dal 2000, i sottoalimentati dei paesi in sviluppo sono scesi dal 23,3% al 12,9% della popolazione locale. Il dato è rilevante anche in termini di stabilizzazione del trend strutturale di crescita nei paesi arretrati, visto che, secondo la ricerca pubblicata ad inizio decennio da Christiansen, lì la crescita del prodotto agricolo lordo ha efficacia tripla sulla riduzione della povertà rispetto a quella del prodotto non agricolo. Deriva anche dalla larga presenza della mano d’opera in agricoltura, ancora al 65% del totale secondo numeri forniti da Banca Mondiale nel 2008.
Sono in particolare gli investimenti privati locali a sostenere l’accentuazione della curva di sviluppo agricolo: nei paesi a reddito medio-basso, nel confronto con gli investimenti pubblici, si è in presenza di investimenti privati locali quadrupli in valore, e peraltro potenzialmente più efficienti. Gli investimenti internazionali non hanno guardato al primario in modo favorevole: sul totale degli investimenti diretti esteri (Ide) l’agricoltura contava circa l’8% nel periodo 1980-85, ma è poi scesa sino all’1,8% del periodo 1996-1990. L’atteggiamento è successivamente cambiato, per la maggiore attenzione nel frattempo offerta alle componenti di qualità del cibo, e perché si è allargata la base dei consumatori specie di quelli urbanizzati. Il mutamento climatico, tradottosi in desertificazioni e allagamenti imprevisti, ci ha messo del suo nello spostare investimenti in zone lontane dal rischio climatico. Si sono anche avuti dirottamenti di grandi masse di granaglie verso i biocarburanti. Come risultato, l’agroalimentare è divenuto più remunerativo. Il che spiega la piccola ripresa del primo quinquennio del nuovo secolo con un dato, il 2,8% di Ide, innalzatosi al 4,8% nel quinquennio successivo.
Fao, in coerenza con la sua missione, guarda anche ai rischi, per i paesi recipienti, dell’ora crescente presenza di capitale privato nell’agroalimentare arretrato, dettando, nel 2014, i cosiddetti principi per investimenti responsabili in agricoltura e sistema alimentare, e stabilendo una griglia di punti di forza e debolezza nel rapporto tra pubblico e privato nei paesi emergenti e non. In particolare ha fissato una technical assistance facility, che può risolversi in un interessante aiuto per l’investitore estero. Altra questione di rilievo per un settore il cui cash flow e capacità di rimborso alle scadenze devono vedersela con gli elementi atmosferici e climatici, il rapporto squilibrato con finanza e credito.
Ogni soluzione deve avere un occhio di riguardo per l’Africa sub sahariana, zona di massima denutrizione, il 23% della popolazione, rispetto, per fare un esempio, all’America latina e caraibica dove lo stesso dato, nel recente quarto di secolo, è sceso dal 14,7% al 5,5%. Investimenti privati, creazione di posti di lavoro, reddito per una vita decente con welfare e condizioni igieniche e di scolarizzazione accettabili: è la progressione obbligata da seguire.