Nel recente viaggio in terra americana, papa Francesco ha rivolto agli Stati Uniti parole di apprezzamento che hanno generato una certa attenzione, se non per il contenuto, per il tono particolarmente caloroso e convinto. Storicamente Roma e Washington non hanno mantenuto rapporti proprio amichevoli, come conferma il fatto che per più di un secolo non hanno avuto relazioni diplomatiche bilaterali ufficiali. Una situazione che ha toccato in modo specifico la chiesa latinoamericana, dalla quale Bergoglio proviene.
Può essere interessante ricordare, in quest’ambito, la dialettica che si sviluppò, tra Chiesa e Stati Uniti, nel corso della guerra del Vietnam. Giusto cinquant’anni fa, il 4 ottobre 1965, durante la missione a New York di un altro papa, Paolo VI, l’allora presidente Johnson chiede alla Santa Sede di mediare la fine del conflitto con i rappresentanti dell’insorgenza comunista. Montini, forte dell’esperienza alla Segreteria di Stato vaticana, accoglie l’invito e si adopera, senza successo, per il blocco dell’escalation, e successivamente delle operazioni belliche. Nel triennio successivo intrattiene corrispondenza con il presidente nordvietnamita Ho Ci Minh, conosciuto decenni prima quando questi viveva esiliato a Parigi. Si adopera, contestualmente, per ammorbidire le posizioni di Mosca, allora capitale del comunismo internazionale, auspicandone l’intervento moderatore sui vietcong. A un certo punto del percorso, esprimerà anche il desiderio di recarsi nel Vietnam del sud.
Un notevole lavoro, in termini religiosi e diplomatici, che fa immaginare a Johnson il dovere di una mossa che suoni anche come ringraziamento: il ristabilimento dei rapporti diplomatici che neppure il suo predecessore, il cattolico John Kennedy, aveva osato proporsi. Troverà l’opposizione ferma delle chiese protestanti e non ne farà niente. Ciò nonostante Paolo VI, ritenuto dalla storiografia, in quell’epoca bipolare dove bisognava stare da una parte o dall’altra, sostanzialmente “filoamericano”, continuerà ad adoperarsi contro la guerra nel sud est asiatico, e due anni dopo l’incontro di New York, nel dicembre 1967, dirà con una certa durezza allo stesso Johnson: “La Chiesa non può più approvare i bombardamenti come strumento di difesa della libertà”. Un mese dopo, la svolta: a fine gennaio, in occasione del capodanno buddhista, i nord vietnamiti scatenano l’offensiva del Tet. Il 31 marzo Johnson sospende i bombardamenti e annuncia che non si ricandiderà alle elezioni di novembre. Il 13 maggio, in quella Parigi dove Montini e Ho Chi Minh si erano conosciuti, si aprono i negoziati di pace, e i primi contingenti statunitensi lasciano il Vietnam.
La capacità di mediazione della Chiesa era già stata apprezzata da Washington in occasione della crisi missilistica di Cuba, e sarà riconosciuta apertamente nella vicenda del ristabilimento delle relazioni diplomatiche con il regime dell’isola caraibica. Per certi versi più significativo l’episodio di mezzo secolo fa qui richiamato, anche perché riguardò una zona del mondo non a maggioranza cattolica. Restano, al di là dell’utilità che la superpotenza armata può derivare dall’alleanza opportunistica e strumentale con la detentrice della maggiore quota di soft power al mondo, contrasti strutturali tra Roma e Washington. Sono ambedue potenze mondiali, con finalità talvolta inconciliabili: l’una nel segno della globalità degli interessi economici e di sicurezza, l’altra dell’universalismo cattolico. Sono ambedue latori di ideologie e valori assoluti, non negoziabili: da un lato la democrazia e il mercato, dall’altro l’evangelo e la dottrina sociale della Chiesa. Sono ambedue titolari di un primato: militare ed economico Washington, spirituale e religioso Roma.