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September 7, 2015
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September 7, 2015
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Il disordine globale del liberismo: quando le cicale superano le formiche

Francesco ErspamerbyFrancesco Erspamer
Time: 3 mins read

Quando Saddam Hussein invase il Kuwait, ossia un pezzo di deserto abitato da poco più di un milione di rentier che non facevano (e fanno) altro che vendere petrolio (a lavorare sono i loro servi, due o tre volte più numerosi ma che non acquisiranno mai cittadinanza o diritti civili e dunque non contano), la pressione di giornali e telegiornali fece indignare la gente e la spinse ad appoggiare l’invio di una gigantesca armata per liberare il paese. In base al principio che una nazione più potente non possa semplicemente appropriarsi di un territorio altrui e scacciarne gli abitanti. Ma era il 1991 e c’era ancora l’Unione Sovietica, sia pure indebolita dalla caduta del muro di Berlino e dalla riunificazione della Germania, pochi mesi prima: il nazionalismo ancora serviva al capitalismo in funzione anticomunista.

Da allora le cose sono rapidamente e profondamente cambiate. La crisi in Siria è l’evidente espressione dell’ordine mondiale che, in assenza di vere minacce, le corporation che dominano il pianeta sono riuscite a imporre. No: non ordine mondiale, parole d’altri tempi. Piuttosto: disordine globale. Il liberismo ama la deregulation e prospera dove non ci siano tradizioni, leggi, etica. Sono le condizioni in cui a imporsi sono sempre i più ricchi e i più forti: con l’appoggio di chi si sia lasciato persuadere che i diritti fondamentali non siano pubblici, ossia l’eguaglianza e la giustizia, bensì privati, in particolare la libertà di comportarsi come gli pare (purché di moda presso il proprio gruppo di riferimento).

E soprattutto la libertà, che immediatamente diventa un obbligo, di muoversi, migrando (le persone) o delocalizzando (le imprese): in altre parole di indebolire o distruggere le comunità, le loro radici, la solidarietà sociale e le culture a vantaggio dell’individualismo, della concorrenza, dell’omogeneizzazione planetaria. Il grande modello, ancora una volta, sono gli Stati Uniti: dove ogni anno (ogni anno) circa venti milioni di persone vanno a vivere in un’altra città, spesso a centinaia se non migliaia di chilometri di distanza da quella originaria, abbandonando famiglie, amici e memorie per inseguire il mito (spesso non realizzato) del successo economico. La mobilità, sociale ma anche geografica, è uno dei dogmi dell’American dream – e del neocapitalismo.

Un dogma accettato e oggettivamente promosso da coloro che vorrebbero accogliere tutti i migranti, clandestini inclusi, quelli che fuggono dalle guerre e quelli che sognano uno stile di vita occidentale. In ottemperanza all’assioma liberista che i popoli non siano tenuti a rispondere collettivamente delle loro scelte politiche e demografiche, che non sia loro richiesto di morire o almeno lottare per la propria autonomia ed emancipazione (ed eventualmente aiutati a farlo; erano le idee del nazionalismo e anche del socialismo), ma che possano semplicemente dissolversi e fuggire, lasciare la propria terra ai prepotenti e ai loro mandanti (spesso le corporation) o abbandonarla all’incuria, andare a farsi sfruttare altrove mantenendo tutt’al più un’identità etnica di nicchia, folkloristica, il tipico multiculturalismo da supermercato che piace tanto alle élite cosmopolite (me compreso) di New York, Londra, Dubai, soddisfatte di mangiare una sera sushi e quella dopo tapas e quella dopo ancora falafel o tandoori. 

Non ci sono facili soluzioni e purtroppo non saranno indolori. Però occorre almeno rendersi conto di cosa sia in gioco: da una parte il diritto di restare, di costruire e poi difendere una comunità e una cultura, ancorandole a uno spazio, a un luogo avvertito come proprio; anche al prezzo del provincialismo, di frontiere, di barriere doganali. Una prospettiva adatta a chi si senta insicuro, i deboli, gli umili, gli anziani; nella favola di Esopo e di La Fontaine, le previdenti, noiose formiche. Dall’altra il diritto di viaggiare, spostarsi, senza muri e confini a ostacolare la ricerca della fortuna e della felicità, affrancati dalle abitudini, dai vincoli, dalle responsabilità. Una prospettiva adatta ai vincenti (o aspiranti tali), ai giovani (finché lo sono), agli ambiziosi; le avventurose e consumiste cicale.

Per secoli le formiche e cicale si erano mantenute in una proporzione sostenibile: le prime molto più numerose, le seconde più aggressive e utili a innescare trasformazioni e innovazioni. Ma la globalizzazione liberista e le sue tecnologie hanno compromesso l’equilibrio: la mobilità di massa e il consumismo di massa, rischiano ora di distruggere l’ambiente e la civiltà.

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Francesco Erspamer

Francesco Erspamer

Nato a Bari, cresciuto a Parma e in Trentino, laureato a Roma, professore a Harvard. Mi interesso di letteratura, politica, storia delle idee e cambiamenti culturali. Insegno corsi su estetica, romanzo moderno e contemporaneo, Rinascimento, calcio. Di recente ho scritto: La creazione del passato, Sulla modernità culturale e paura di cambiare, Crisi e critica del concetto di cultura. Come Gramsci, penso che al pessimismo della ragione occorra accompagnare l’ottimismo della volontà, e come James Baldwin, che la libertà non la si possa ricevere in dono: bisogna prendersela.

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