Mentre il mondo, in particolare europei e possessori di euro, teneva il fiato sospeso sulla vicenda Grecia, lontano dal clamore dell’episodio, su un altro tavolo i cinque presidenti delle istituzioni Ue consegnavano il modulo per rimettere l’Unione al lavoro, nella consapevolezza che senza l’iniezione di un’ulteriore dose di politiche comuni, la splendida costruzione che dal dopoguerra ad oggi garantisce pace e prosperità al vecchio continente e che ha portato fuori dal comunismo e dalla povertà la sua zona centro-orientale, sia destinata all’implosione.
Solo la rozzezza di certi commentatori e il gusto per lo scandalismo di altri, possono spiegare l’assordante silenzio che sta circondando questa storica partita a cinque, avviata tre settimane fa con l’obiettivo di disincagliare il vascello europeo dalle secche nelle quali, per sue evidenti responsabilità, è finito. I Presidenti di Commissione, Parlamento, Banca centrale, Consiglio, Euroclub, hanno stilato un documento programmatico di forte spessore che, se troverà il consenso dei governi dei paesi membri e soprattutto del vasto popolo dei Ventotto, potrà finalmente consentire di riprendere la costruzione europea, a suo tempo bloccata dal “forzato” allargamento ai paesi post-comunisti.
Il piano dei Cinque è stato accusato di fissare tappe troppe lente per la realizzazione delle sue proposte, a cominciare da quella relativa alla “genuina Unione monetaria” prevista per il lontano 2025. La critica ha una sua ragione, anche se dimentica che i Cinque si esprimono per i dieci anni, perché nel frattempo occorre realizzare indispensabili e complesse misure di convergenza strutturale. E comunque, chi meglio dei presidenti delle cinque istituzioni di pilotaggio dell’Unione possono essere in grado di valutare i modi e i tempi con i quali uscire dalle secche? Per ora conosciamo un’Ue che gira a vuoto o, peggio, sta ferma: già riprendere la navigazione, anche se a bassa velocità, sarebbe un buon risultato.
Semmai, quello che difetta, nel rapporto dei cinque presidenti, è la prospettiva politica, un percorso verso un governo dell’Europa che sprizzi efficienza ed efficacia. La risposta più ovvia è che non ci sono le condizioni per realizzarlo e che spingere troppo un motore inadatto a girare, ha come unico effetto quello di rompere il motore. C’è un’altra risposta: se ci fossero leader con visione e consapevolezza, assumerebbero loro la responsabilità di essere motore della nuova fase, e i popoli probabilmente comprenderebbero e seguirebbero. Il termine leader non identifica chi segue pedissequamente il popolo, ma chi lo guida. E di guida in Europa c’è soprattutto bisogno in tempi di populismo e di rinascenti pregiudizi.
E’ di ieri il rilancio da parte della britannica Pew, dei risultati di una ricerca effettuata nel 2013 sui reciproci stereotipi in Europa. Ne vien fuori un continente ancora diviso da inveterati pregiudizi, con i tedeschi interpretati come i più affidabili ma anche, i meno compassionevoli e i più arroganti (insieme ai francesi). Definire come i più arroganti i due governi che costituiscono dagli anni ’70 il motore dell’integrazione mostra quanto profondo sia stato il danno di nazionalismo e populismo. Per questo è importante che il rapporto dei Cinque ribadisca concetti che appartengono alla storia Ue: comunanza di destino, condivisione delle regole, ma anche solidarietà in particolare nel legame irreversibile fissato nella scelta della valuta comune. Domani si riparte, con il prestito ponte alla Grecia di 7 e più miliardi di euro. Questi, e gli altri soldi promessi alla piccola e malandata nazione ellenica, avranno un senso solo nel quadro qui richiamato.