I cubani hanno poco cibo nei piatti ma molta speranza in Obama che il 20 luglio riaprirà la sede diplomatica a Cuba. Nell'isola, dove sono vietati Internet e la TV satellitare e i giornali sono due foglietti di partito, non sanno ancora che l’embargo economico, commerciale e finanziario cominciato nel 1960 dai governi USA potrebbe cadere. La Mesa Redonda (talkshow di analisi politica) dove i giornalisti della TV di Fidel spiegano la politica internazionale non parla di questo. Raùl Castro nemmeno. Gli edifici cadono a pezzi e non ci sono beni di consumo e i prezzi sono assolutamente fuorimercato.
Dopo la nazionalizzazione di terre e proprietà, fabbriche e case anche di cittadini americani el “bloqueo”, come lo chiamano i cubani, si è inasprito sempre di più, senza però impedire che nell’isola circolino prodotti americani per i turisti. Il regime dei Castro però addita l'embargo ogni momento come responsabile del fracasso dell’economia cubana che ormai deve importare anche lo zucchero che consuma.
I cubani sono allo stremo: al contrario di ciò che raccontano i registi di certi film, non ci sono medicine né cibo, i bambini non hanno latte né formaggi, la frutta in un paese dove basta gettare un seme per avere tre produzioni annuali è poca, carissima e solo di stagione. Non si fanno più figli e si sogna solo di scappare alla Yuma. L’America. Nessuno studia più perché all’estero è più facile fare il percussionista o la ballerina. Senza contare le fughe con matrimoni con stranieri: secondo uno studio dell’Università di Sociologia di Chieti solo nell’Italia centro Sud si celebrano 50 matrimoni al mese tra italiani e cubane. E il 5% del turismo sessuale verso l’isola è italiano e femminile. E gli arresti dei dissidenti continuano.

Studenti cubani in parata. Foto: Adalberto Roque, fotografo ufficiale di Fidel Castro
Il regime di Fidel Castro è stato al potere dal 1959 al 24 febbraio 2008, quando si è insediato il fratello Raùl che ha promesso di lasciare nel 2018 (quando compirà 86 anni). Un regime dichiaratamente socialista, o meglio castrista, viste le varianti tropicali che comprendono leggi che permettono l’arresto di chi non lavora o di chi è un potenziale nemico, solo potenziale, senza che abbia commesso nessun reato, e dove gli avvocati stranieri non hanno voce nei tribunali. Tribunali che nei contenziosi economici con impresari stranieri hanno sempre dato ragione ai cubani, che devono far parte del 61% delle imprese pur non apportando né capitali né esperienze. E che sono sempre miliari. Militari sono i soci di agricoltura, servizi per il turismo, trasporti e negozi. Sempre e solo militari di Raùl.
Ma i cubani hanno imparato a vivere ballando, bevendo facendo sesso senza preoccuparsi del futuro, e sanno che chiunque arrivi nell’isola porterà qualcosa in più di quello che hanno. Cioè un paese che è la caricatura di un paese civile, dove manca tutto e dove la doppia morale è quotidiana.
I cubani, specie i giovani, aspettano il 20 luglio, giorno dell’apertura dell’ambasciata americana sul Malecòn con la stessa speranza della prima visita del Papa nel 1998. In quell’occasione Fidel Castro al potere, e non dietro le quinte come oggi, ripristinò il Natale ed iniziò un disgelo con le religioni (tutte); permise le processioni di Pasqua, il Battesimo persino dei militari e la restituzione dei beni espropriati alla Chiesa cattolica.
Loro sanno che a Cuba i cambiamenti sono lentissimi ma ci sono. Il regime è alla frutta e non produce più nemmeno il cibo. Già apertamente si critica il regime e si chiamano “faraoni” i fratelli Castro; già le classi sociali si stanno delineando, non solo in virtù del posto statale che si occupa e dal potere che dà, ma anche dal lavoro dei privati. I “particular” guadagnano, lavorano e si ingrandiscono. Nascono professioni prima impensabili come l’agente immobiliare (che prende il 10% di commissione) per le vendite complicatissime di case che gli stranieri sposati a cubane stanno comprando a frotte. Se un ingegnere che lavora per Melia (che pur avendo un socio cubano non può coltivare nulla ma deve importare il cibo per i 28 alberghi e pagare le tasse) guadagna 20 dollari al mese, ora la camera di Commercio cubana permette l’assunzione di personale senza passare dal partito, e Radio Rebelde trasmette annunci economici.

Auto a La Habana, Foto: Paul Mannix via Flickr https://www.flickr.com/photos/paulmannix
Certo la piramide sociale è invertita. In cima ci sono i militari, poi i taxisti, poi le jineteras, come vengono chiamate le prostitute, poi i i ricchi non dichiarati: i compradores di merci, direttrici di orchestre o gruppi di ballo che si esibiscono all'estero. Infine i contrabbandieri che però rischiano grosso. E il mercato dei beni di consumo è folle: i cubani oggi possono comprare un’auto posteriore al 1951 (con autorizzazione scritta del partito) ma una Mercedes vecchia di 10 anni ha un prezzo di 120.000 dollari. E 4.000 per una Fiat Panda senza motore.
“Siamo contenti dell’arrivo del nuovo ambasciatore americano. Obama sta facendo un buon lavoro che darà frutti positivi per entrambi i popoli – dice Maurizio Capuano, ricercatore di Storia presso l’Università di Holguin, dove vive con il figlio di 17 anni, calciatore nella Nazionale cubana e uno dei 1200 italiani residenti nell’isola – Cuba ha un futuro e il popolo cubano si merita meno difficoltà economiche”.
Più politico il commento di Domenico Vecchioni, ex ambasciatore italiano a Cuba ed autore di successo, tra l’altro dell’unica biografia autorizzata di Raùl Castro: “Penso che sia un accordo squilibrato. Non capisco Obama: mentre i Castro hanno incassato subito una legittimazione anche da parte degli americani, lui si è accontentato di una vaga promessa di cambiamenti che non si sa quando avverranno. Sono contento dell’apertura della sede diplomatica – prosegue Vecchioni – ma il nuovo ambasciatore potrà agire come tutti i diplomatici dei paesi democratici? Le speranze sono molte. A parte le difficoltà che Obama potrebbe incontrare con il voto del Congresso dove i cubani d’America contano eccome”.
“Perché non sono state coinvolte le organizzazioni per i diritti umani?”, chiede Yoani Sanchez che firma un famoso e pluripremiato blog dall’isola. I cubani sono pieni di speranza, ma sanno anche che il rischio è che Raùl Castro voglia affermare un modello di Capitalismo Militare di Stato dove il controllo sarà totale e dove non c’è spazio per la società civile. Il regime non ha nessun interesse all’arricchimento di impresari esterni, ed accetterà questi solo se renderanno più forte il regime. Ed è ovvio che i Castro vogliono rimanere al potere e non sviluppare un’economia che renda meno miserabile la vita dei cubani.

Un’immagine d’archivio della costruzione dell’edificio che attualmente ospita la Oficinas de intereses USA
L’ambasciata americana oggi è un tetro edificio che si affaccia sul Malecòn, chiamata Oficina de interese USA, perché è solo un ufficio appoggiato alla sede dell’ambasciata Svizzera. Circondato da bandiere cubane, una statua di Elìan, il bambino recuperato in mare e restituito al padre, è luogo super vigilato. Non si può camminare se non sul lato opposto del marciapiede, chi è in fila per entrare a richiedere il visto, viene schedato dalla polizia castrista e l’addetto consolare ogni volta che vuole andare al mare o girare l’isola deve chiedere il permesso. Lì confluiscono tutte le manifestazioni anti USA dei cubani, ma è anche l’unico edificio che ha le luminarie a Natale e auto parcheggiate che non siano Buick del 1951 o rottami sovietici.
Dal 20 luglio diventerà un’ambasciata a tutti gli effetti. “Cuba te espera” è lo slogan che accoglie i 350.000 italiani che ogni anno affollano gli alberghi e las casas particolare e che oggi è rivolto agli americani. Ma cosa ne pensano i cubani, come aspettano la Yuma gli 11 milioni di residenti nell’isola dei Castro al potere da 56 anni? “Che vengano, che vengano! Sono nostri fratelli da sempre. Ci hanno liberato dai Conquistadores spagnoli, siamo vicini e porteranno hamburger! Io sogno un cheesburger da una vita – dice ridendo Lazaro Martin Diaz , ballerino mulatto – e vado già a lezioni di inglese, in modo che quando arriveranno los yumas, io sarò pronto per insegnare loro la rumba”. Ed è quello che pensa la maggior parte dei cubani, escludendo gli anziani rassegnati al peggio. Con una popolazione formata dal 60% di persone con meno di 50 anni, nata e cresciuta con il regime dei Castro, senza libertà né diritti civili, un reddito pro capite di 15 dollari al mese (la carne ne costa 12 al chilo), niente consumismo, né informazioni, i cubani sognano solo una cosa: andare a vivere a Miami. Ed ora gli americani potrebbero arrivare, sul serio, con il loro capitalismo, senso del dovere e lavoro ben retribuito. Una rivoluzione al contrario. Ci riusciranno?
*Marcella Smocovich, ispanista, viaggiatrice e appassionata lettrice. Ha lavorato 15 anni con lo scrittore Leonardo Sciascia con cui ha imparato a leggere; 35 anni al Messaggero come giornalista professionista. Ha collaborato a El Pais, El Mundo di Spagna, alla CBS di New York . E’ stata vice direttore del mensile Cina in Italia. Viaggia frequentemente a Cuba, su cui ha scritto due libri, un’opera teatrale e moltissimi articoli. Vive tra Tunisi, New York, Roma e La Habana. E’ laureata a Salamanca e a Chieti.