“Catastrofe” era all’origine un termine letterario che indicava la parte conclusiva della tragedia greca classica.
La parola è rimasta nel lessico moderno con un altro significato; ma, per quel che riguarda la tragedia greca più recente – l’avventuroso viaggio all’interno del processo di integrazione europea – non è escluso che sia proprio quella a caratterizzarne l’epilogo.
La crisi greca, benché originata da un problema economico (il debito), ha finito tuttavia per infrangersi su uno scoglio politico: quello della credibilità del progetto europeo.
Il processo di integrazione tra i paesi europei non ha alternative: da soli, i paesi del Vecchio continente sarebbero stritolati dalla concorrenza di potenze dalla stazza continentale come gli Stati Uniti e la Cina e, in prospettiva, l’India, il Brasile e la Russia. Nel suo ultimo libro, Henry Kissinger sostiene che, senza un’alleanza strategica tra l’Europa e gli Stati Uniti, il Vecchio continente «potrebbe trasformarsi in un’appendice della sfera d’influenza dell’Asia e del Medio Oriente». Forse quella di Kissinger è un’esagerazione dettata dalla volontà di mantenere l’Europa legata al carro americano; quel che è certo, invece, è che, senza integrazione, i singoli paesi europei sono destinati a diventare le appendici insignificanti di sfere d’influenze diverse: asiatiche, mediorientali, ma anche più probabilmente – come è accaduto nel Novecento – americane e russe.
Questa è l’evidenza sulla cui base, fin dalla fine della Seconda Guerra mondiale, le classi dirigenti francesi e tedesche hanno deciso di mettere in comune le loro ricchezze per por termine alla millenaria “guerra civile europea”. Va da sé che non si tratta di un progetto meramente difensivo: proprio in Francia è stata coniata la formula di “Europa-potenza”, che la dice lunga sulle intenzioni dei suoi protagonisti. E come tutte le potenze, o aspiranti tali, l’Europa si è costruita la propria sfera di influenza: essenzialmente mediterranea (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo) quando la Germania era un “nano politico” diviso in due dalla spartizione di Yalta; essenzialmente est-europea quando la Russia ha dovuto ritirarsi da quell’area e la Germania si è riunificata.
In questa corsa alla definizione delle sfere d’influenza, ogni lasciata è persa. Tutti i paesi, anche i più minuscoli e remoti (come Cipro, Malta o le repubbliche baltiche) sono pedine che, innanzitutto, occorre strappare ai concorrenti e, in prospettiva, possono essere giocate contro i concorrenti. Il dibattito “estensione vs. approfondimento” dell’Europa è spesso astratto ed ideologico: prova ne sia che la Francia – teoricamente partigiana dell’approfondimento contro l’estensione – ha tentato surrettiziamente di estendere la sua sfera di influenza attraverso l’Unione mediterranea, nel 2008, prima di essere bloccata dalla Germania.
Ecco come la Grecia si è ritrovata risucchiata nella sfera d’influenza franco-tedesca, ed ha approfittato ampiamente di tutti i benefici che ne derivavano. Come tutti gli altri paesi, la Grecia ha portato con sé, non foss’altro che per inerzia, l’eredità dei suoi comportamenti abituali. Secondo Carmen Reinhart, per metà della sua storia come Stato indipendente, dal 1829, «la Grecia è stata in condizione di default», e lo era ancora fino a metà degli anni 1960. Già nel 1894, l’ambasciatore italiano Alessandro Fè d’Ostiani scriveva al suo governo: «Le conseguenze di una rottura definitiva di ogni negoziato per l’assestamento finale del debito pubblico greco sarebbero un disastro irreparabile».
Ma se da una parte non pagare i debiti pare essere uno sport nazionale, dall’altra, coloro che hanno voluto la Grecia nella Comunità europea, e poi nell’euro, non potevano non saperlo. E non potevano non sapere che la pioggia di finanziamenti e prestiti europei avrebbe riattivato antiche pulsioni.
La trattativa di queste ultime settimane è stata essenzialmente politica. Certo, al centro della discussione c’è un debito pubblico di 313 miliardi di euro (il 172% del PIL). Ma, in realtà, quel che preoccupa di più è la tenuta del modello di stabilità monetaria che è alla base del compromesso dell’euro e che, come tale, è difeso tenacemente dalla Germania. Esiste un “rischio greco”, certamente, ed è colossale. Ma l’inflessibilità mostrata dall’Unione è diretta soprattutto agli altri paesi indisciplinati – come l’Italia, la Spagna ma anche la Francia – i quali non esiterebbero ad infilarsi in un’eventuale breccia greca nel caso in cui fosse l’Unione a cedere.
Alexis Tsipras ha dato sfoggio di orgoglio nazionale trescando con la Russia e vendendo pezzi di paese alla Cina; ma soprattutto ha trascinato la trattativa per le lunghe cercando di mobilitare le inconfessabili simpatie dei paesi più indisciplinati e più indebitati. Senza successo.
Senza essere riuscito a modificare l’articolo 107 della Costituzione, che esenta gli armatori dalle imposte, e rifiutandosi di diminuire il bilancio della difesa (non dimentichiamo che il ministro della Difesa, Panos Kammenos, è il capo di un partito della destra nazionalista), il governo Tsipras ha deciso di andare allo scontro frontale e finale con l’Unione europea e con tutti coloro che, in questi ultimi anni, hanno prestato denaro alla Grecia.
Se il referendum gli darà ragione, per la Grecia si aprirà uno scenario apocalittico – una catastrofe, appunto – in confronto alla quale le misure di austerità imposte dalla troika sarebbero state zuccherini. Con, in sovrammercato, conseguenze largamente imprevedibili anche per l’insieme dell’Unione europea. Se il referendum gli darà torto, questa esperienza di “socialismo con il denaro degli altri” prenderà definitivamente fine, e la mitologia greca tornerà a doversi misurare con quella realtà da cui non è mai uscita: quella del capitalismo e delle sue leggi.