Della reazione del presidente turco Erdogan alle parole del Papa sulle uccisioni di massa di armeni nell’ultimo anno dell’impero ottomano, non meravigliano tanto i contenuti quanto la forma ai limiti dell’arrogante intimidazione. Tanto più che lo stesso Erdogan, lo scorso anno, in occasione della giornata che gli armeni dedicano all’inizio dello sterminio, il 24 aprile, aveva espresso le “condoglianze ai nipoti” delle vittime degli eccidi, con un articolato comunicato in nove lingue.
Eppure è proprio l’esame del comunicato ufficiale che l’allora primo ministro rilasciò nel 99mo anniversario, a spiegare l’attuale torvo atteggiamento, immutato anche dopo la condanna del Parlamento europeo, sino alla minaccia di espulsione degli armeni residenti. Quel documento, salutato come il primo passo verso la revisione della posizione negazionista di Ankara, posizionava in realtà l’eccidio degli armeni dentro una logica “unitaria”: turchi, curdi, arabi, e, perché no?, armeni avevano tutti sofferto le conseguenze della transizione dalla fatiscente Porta al nuovo dei giovani turchi, senza alcuna distinzione di religione ed etnia. Le vittime, nei loro immensi numeri, meritavano tutte la stessa pietà, per la compassione umana che episodi del genere richiedono.
Le scuse, meglio ancora la richiesta di perdono, viene da chi riconosce la colpa sul piano storico e politico. Chi si appella ai valori universali dell’“umanesimo”, come fece Erdogan in quel documento, per rivolgerli a tutte indistintamente le vittime, intende dire che il popolo turco/ottomano nel suo insieme, non questa o quella comunità, fu massacrato e violentato. Messa così la questione armena non esiste sul piano politico ma solo su quello umanitario anzi, nella logica ufficiale turca, se gli armeni insistono su rivendicazioni politiche che riguardano la loro identità conculcata, speculano sulla tragedia collettiva dei sudditi ottomani.
Vi è evidenza di questa logica in due frasi chiave del documento cui si fa riferimento. La prima afferma che “neither constructing hierarchies of pain nor comparing and contrasting suffering carries any meaning for those who experienced this pain themselves”. La seconda che “using the events of 1915 as an excuse for hostility against Turkey and turning this issue into a matter of political conflict is inadmissible”.
Si provi, il signor Erdogan, ad esporre con la stessa logica ai suoi amici ebrei che il loro non è stato un genocidio specifico e mirato, dato che, citazione dal suo comunicato, “fire burns the place where it falls”. Provi a dire agli ebrei che i morti di Shoah sono vittime non dell’odio razziale ma di incidenti (!) della Seconda guerra mondiale, al pari delle altre vittime, nella logica esposta agli armeni: “The incidents of the First World War are our shared pain”. Dall’approccio la conclusione che la catasta di vittime armene non è materia da affidare al giudizio della politica e/o di una corte dei diritti umani, ma a studiosi e storici: “To evaluate this painful period of history through a perspective of just memory is a humane and scholarly responsibility”.
Si dà il caso che tra gli alleati NATO circoli invece l’esigenza di mettere fine al negazionismo, anche se a Washington chiamano “massacro” quello che gli europei, e il papa, definiscono genocidio. Nel 1987 il Parlamento europeo riconobbe il genocidio, condannando la Turchia. Il 22 dicembre 2011 l’Assemblea nazionale francese dichiarò reato negare i genocidi, compreso l’armeno, fissando la pena sino a un anno di carcere e 45 mila euro di multa. E sappiamo tutti la posizione espressa in settimana a Strasburgo dai parlamentari dei 28.