Il sistema internazionale è spinto, dalla sua natura, a ricercare di continuo la propria stabilizzazione. Lo fa attraverso incessanti stop and go: crisi, seguite da assestamenti di equilibrio. Si ha consapevolezza che la lunga transizione verso il nuovo assetto di sistema, iniziata mezzo secolo fa con la caduta del comunismo in Europa, è ben lontana dall’essere conclusa. Con l’insorgenza criminale islamista, sono i muscoli mostrati da un numero elevato di attori del sistema, anche attraverso il riarmo, a segnalare che gli affari internazionali tendono all’ulteriore instabilità, nonostante prosegua la baldoria finanziaria e commerciale della globalizzazione, un tempo teorizzata come la mucca che tutti gli stati sarebbero stati lieti di mungere insieme, lasciando da parte diffidenze e rivalità.
Negli Stati Uniti, l’invito a Netanyahu in piena campagna elettorale in Israele, non è tanto mancanza di galateo istituzionale e schiaffo repubblicano alla sacralità presidenziale, quanto manifestazione dell’insofferenza dell’establishment militar-industriale alla politica estera attendista e conciliativa di Obama sino alle nuove relazioni con Cuba e il quasi accordo sul nucleare iraniano.
In Europa, l’impunita aggressività russa, che modifica la carta geopolitica e geoeconomica uscita dal dopo guerra fredda attraverso atti di annessione armata e lo scatenamento di conflitti etnici interni a paesi sovrani, trova pendant nel riarmo della Germania e nel rilancio, da parte del presidente della Commissione Junker, del progetto di Difesa comune UE.
In Asia, la nuova assertività della Cina, volta anche a ritocchi territoriali confinari, genera, insieme all’allarme generalizzato dei paesi del Sud-Est asiatico, il building up delle forze armate nipponiche sostenuto da diffuse richieste di revisione della carta costituzionale che rigetta il warfare. Il tutto, in un ambito regionale invaso dai venti del nazionalismo militare: in Vietnam Birmania e Thailandia ad esempio, e in Pakistan e India.
Intanto il bubbone putrescente dell’islamismo guerriero, dal ventre molle sirio-iracheno mostra di volersi allargare via Egitto, verso Libia e intero Maghreb arabo per risalire da qui sull’Europa e penetrare a sud in Africa. Il fenomeno non trova risposte politiche adeguate né nei territori interessati né nel cosiddetto Occidente. Nei primi si risponde accrescendo l’uso della forza sulla popolazione, in Egitto col colpo di stato e il ritorno al potere della casta delle Forze Armate, in Algeria congelando con la violenza il quadro politico, in Israele consegnando il paese alla destra dura. Fuori dalla regione si alza ovunque il livello dell’impegno di polizia e militare per la sicurezza.
Il Novecento ha insegnato che dove prevale il warfare, si hanno società che soffrono presto o tardi guerre e impoverimento, mentre dove mette radici il welfare (l’Europa, in particolare quella scandinava e socialdemocratica lo testimonia) vi sono pacificazione, democrazia e crescita economica. Se è inevitabile adottare strumenti legali di prevenzione e uso della forza contro le minacce, occorre tuttavia impedire che il nuovo equilibrio sistemico rischi di essere frutto solo del confronto tra le forze in campo.
Come ha scritto Larry Diamond anni fa in Foreign Affairs, occorre arrestare la “resurgence of the predatory state” e la “democratic recession”. Ma al tempo stesso, come ha detto in una recente intervista a El País il presidente colombiano Juan Manuel Santos: non può “sacrificarsi troppa giustizia sugli altari della pace”.