Cosa vuole Bibi? Questo l’interrogativo che circola in questi giorni, in occasione della visita del primo ministro israeliano Benjamin (“Bibi”) Netanyahu al Congresso degli Stati Uniti, martedì 3 marzo. La risposta non è semplice, ma si possono azzardare alcune ipotesi.
Di sicuro, Netanyahu vuole vincere le elezioni del 17 marzo, e la sua visita ha certamente un pesante sottinteso elettorale. Ma questa spiegazione, seppur vera, è largamente insufficiente. Infatti, le cose che Bibi è venuto a dire a deputati e senatori americani sono le stesse su cui ha battuto con instancabile determinazione durante tutto il suo mandato (e, in verità, anche prima): impedire a tutti i costi che l’Iran si doti della bomba atomica. Anche a costo di guastare forse irrimediabilmente i rapporti col suo più fedele alleato e protettore – gli Stati Uniti d’America, appunto.
Tuttavia, il vero problema di Israele non è e non può essere l’atomica iraniana. Il perché lo ha spiegato alcuni anni orsono l’allora presidente francese Jacques Chirac: se l’Iran lanciasse un attacco nucleare contro Israele, Teheran sarebbe rasa al suolo prima ancora che i missili iraniani fossero alle viste della frontiera israeliana. Chirac fu redarguito per aver pubblicamente menzionato uno dei segreti di Pulcinella più noti di tutto il pianeta: quello riguardante l’atomica israeliana. Ma i fatti sono lì: Tel Aviv dispone di tutto il necessario per dissuadere ogni potenziale attacco e, comunque, per distruggere in volo eventuali missili nemici (il famoso Iron Dome).
C’è, poi, un’altra ragione che porta a dubitare delle reali intenzioni di Bibi. Il raggio d’azione dei missili pakistani Shaheen-II è di 2.500 chilometri: non sufficienti ancora per raggiungere Israele, ma poco ci manca (un migliaio di chilometri o poco più). È più facile che il Pakistan si doti della tecnologia necessaria per aumentare la portata dei suoi missili intermedi – tanto più che dietro la tecnologia nucleare pakistana c’è notoriamente la Cina – piuttosto che l’Iran si doti di una sua bomba atomica. Tanto più che lo stesso Mossad, il potente servizio segreto israeliano, ha seri dubbi che l’Iran possa disporne entro breve. Ma allora, cosa vuole Bibi?
Le ipotesi che si possono azzardare partono dalla constatazione che gli Stati Uniti non sono più in grado di influenzare la politica mediorientale come lo erano fino a pochi anni fa. Le cause sono molteplici, e vanno dalla defezione dell’Iran nel 1979 fino all’attuale declino relativo della potenza americana. Quel declino che, fin dal 1987, aveva fatto dire a Paul Kennedy che "the sum total of the United States’ global interests and obligations is nowadays far larger than the country’s power to defend them all simultaneously" (la somma totale degli interessi e degli obblighi internazionali degli Stati Uniti è oggi di gran lunga più ampia della capacità del paese di proteggerli tutti contemporaneamente). Se questo era già vero nel 1987, lo è a maggior ragione oggi, quando il peso relativo degli Stati Uniti nel mondo si è drasticamente ridotto in ragione direttamente proporzionale all’aumento del peso relativo di Cina, India, Brasile e altri nuovi e vecchi concorrenti.
La nascita di Israele fu voluta dall’Unione Sovietica con l’avallo degli Stati Uniti. Dal 1948, ha sempre goduto della protezione internazionale di grandi potenze, passando con disinvoltura dall’URSS alla Gran Bretagna e alla Francia, fino di nuovo agli Stati Uniti. Oggi, quella protezione non è più quello che era, né si vede dell’appoggio di quale altra grande potenza potrebbe godere oggi Israele. La sola alternativa di cui dispone Tel Aviv, dunque, è smetterla di giocare la finzione “occidentale” (come in passato ha tranquillamente dismesso la finzione “socialista”), e cominciare invece a giocare come un attore mediorientale tra gli altri.
Va da sé che, in parte, Israele lo ha sempre fatto. Ha sempre tenuto aperti i canali con tutti i paesi della regione, anche i più rumorosamente ostili; qualche volta ufficialmente, ma assai più spesso con grande discrezione. Conosce, quindi, la grammatica e la sintassi geopolitiche del Medio Oriente, e vi si sa adattare.
La possibilità che l’Iran sviluppi una tecnologia nucleare militare è una minaccia che pesa assai più sull’Arabia Saudita e sui paesi del Golfo che non su Israele. Ma solo Israele (a parte, naturalmente, gli Stati Uniti) ha la possibilità di difendere quei paesi. Molto probabilmente è proprio in questa direzione che occorre guardare per cercare di capire che cosa abbia davvero in mente Bibi.
La politica sempre più nitida dell’amministrazione Obama di rapprochement nei confronti dell’Iran prepara uno scombussolamento generalizzato delle alleanze in Medio Oriente. Israele, che conosce la grammatica e la sintassi della regione, ha tutti i mezzi per potersi rivolgere agli uni e agli altri proponendosi di arbitrare questa colossale partita geopolitica. Oppure di gettare (o minacciare di farlo) le sue forze su uno dei due piatti della bilancia: sul piatto sunnita contro l’Iran, o sul piatto sciita contro i sauditi e i loro raccapriccianti sgherri in azione dalla Libia al Pakistan passando per la Siria.
Se c’è un calcolo dietro alle mosse di Bibi, il più plausibile è forse proprio quello di fare di Israele una potenza mediorientale.
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