Dopo l'attacco terroristico contro la sede del settimanale satirico francese Charlie Hebdo del 7 di gennaio a Parigi, un’onda di solidarietà con le vittime degli attentati e con la Francia ha attraversato il pianeta. Dal Cairo a Stoccolma, milioni di persone soprattutto in Occidente ma non solo, hanno dimostrato il loro rammarico per quanto accaduto nelle piazze e su Internet.
La frase "Io sono Charlie" è diventata simbolo della libertà di espressione in tutte le democrazie del mondo. Dall’Argentina all’Inghilterra, la stampa si è stretta intorno ai giornalisti francesi assassinati rifiutando l’autocensura e scegliendo invece di pubblicare articoli e vignette in difesa di quel diritto alla libertà di parola violato dai terroristi. Ma che cosa è la libertà di espressione che i media occidentali vogliono difendere e dove, se esiste, viene tracciato il limite tra il diritto di esprimere un'opinione e la provocazione?
Dopo che quasi quattro milioni di persone e circa 50 capi di stato e di governo da tutto il mondo hanno partecipare alla marcia per la libertà di espressione di domenica 11 gennaio, ora c'è anche chi analizza criticamente la possibilità di avere una pubblicazione come Charlie Hebdo nel loro paese come ha fatto il disegnatore israeliano Ido Amin sul quotidiano Haaretz: "Se Wolinski fosse venuto in Israele e avesse aperto un Charlie Hebdo qui, avrebbe avuto un problema — si legge nel contributo pubblicato dal giornale israeliano — In Francia, la libertà di espressione è considerata come un diritto universale. Ma in Israele, un settimanale del genere non potrebbe esistere, perché via di una legge israeliana che proibisce di 'offendere le sensibilità religiose’".
I am not Charlie Hebdo
Altri giornalisti nel mondo si sono chiesti perché la comunità internazionale non si sia indignata allo stesso modo quando le loro organizzazioni si sono state attaccate. Il 13 di gennaio Sarah Munir, una giornalista di stanza a Karachi in Pakistan, ha scritto sull'Huffington Post: "Io faccio parte di un’organizzazione che ha subito attacchi per tre volte nel 2014 per le sue posizioni su estremismo e attivismo. Tre persone hanno perso la vita, un'altra è stata ferita ed è rimasta paralizzata. Ma voi non lo sapete e probabilmente non lo saprete mai".
L'8 gennaio, David Brooks, un giornalista americano del New York Times ha pubblicato un articolo dal titolo I am not Charlie Hebdo nel quale spiega perché lui non si sente Charlie: "Se avessero provato a pubblicare il loro giornale satirico in qualsiasi campus universitario americano nel corso delle ultime due decade, non sarebbe durato 30 secondi. Gruppi di studenti e di insegnanti li avrebbero accusato di incitazione all'odio. L’amministrazione avrebbe tagliato i finanziamenti e chiuso la redazione".
A Parigi il 14 gennaio la polizia ha fermato il controverso umorista francese Dieudonné che, dopo avere partecipato alla marcia di domenica scorsa, aveva detto che si sentiva "Charlie-Coulibaly". Accusato di apologia di terrorismo, l’umorista aveva spiegato di aver solo voluto denunciare il fatto che si sente perseguitato come il settimanale satirico.
Il giornalista americano Glenn Greenwald, noto per aver pubblicato le rivelazioni di Edward Snowden, ha preso le difese di chi polemizza contro i difensori della libertà di espressione in un articolo sul suo sito internet The Intercept in cui paragona le vignette pubblicate da Charlie Hebdo con altre vignette che prendono a bersaglio altre religioni o culture e che non hanno ricevuto la stessa accoglienza riservata al settimanale francese.
Libertà di espressione o provocazione?
Dopo lo shock dell'attacco è arrivata anche la risposta di Charlie Hebdo che mercoledì ha deciso di uscire con una nuova copertina che ritrae Maometto in lacrime, disegnata da Luz. Questo numero, stampato in 5 milioni di copie e distribuito nel mondo in francese, inglese, italiano, ma anche in turco e in arabo, è andato letteralmente a ruba, mentre generalmente il settimanale vendeva tra le 30 e le 40 mila copie a settimana.
Alla pubblicazione dell'ultimo numero è seguita un'ondata di indignazione e critiche nel mondo musulmano e non solo: molti paesi, tra cui la Russia, ne hanno vietato la distribuzione, altri, come il Qatar, si sono limitati a condanne ufficiali. In Turchia è stato dato l’ordine di bloccare i siti che mostrano le vignette.
L'effetto più preoccupante, tuttavia, sono le tante manifestazioni contro il giornale satirico che negli ultimi giorni si sono concluse con espressioni di violenza. Un fotografo dell’agenzia AFP ha perso la vita in Pakistan, un centro culturale francese è stato attaccato in Niger dove anche chiese e negozi della popolazione cristiana sono diventati bersaglio delle proteste.
Nell'acceso dibattito si è inserito anche Papa Francesco che ha approfittato di uno scambio con un giornalista francese durante un volo verso le Filippine per far conoscere la sua opinione sulla libertà di espressione: "Ognuno non solo ha la libertà e il diritto ma anche l’obbligo di dire quello che pensa per aiutare il bene comune. L’obbligo! Se un deputato, un senatore non dice quella che pensa sia la vera strada da percorrere, non collabora al bene comune. Abbiamo l’obbligo di parlare apertamente. Avere questa libertà, ma senza offendere. Perché è vero che non si può reagire violentemente, ma se il dottor Gasbarri [l'organizzatore dei viaggi papali, ndr], che è un amico, dice una parolaccia contro la mia mamma, lo aspetta un pugno. Non si può provocare, non si può insultare la fede degli altri".
La libertà di espressione e di opinione è un diritto fondamentale ma questa libertà andrebbe usata per far progredire la pace e unire gli uomini anche se sono diversi e non la pensano allo stesso modo. Se la libertà di espressione divide e fa nascere guerre, violenza e scontri di culture, il razzismo e l’odio finiranno per vincere la guerra della libertà.