L’anno che sta volgendo al termine lancia un preoccupante segnale d’allarme per quanto riguarda le condizioni di sicurezza dei giornalisti, soprattutto per quelli che lavorano in giro per il mondo, ed impone una seria riflessione alla comunità internazionale: come riportato dal Committee to Protect Journalists, infatti, nel 2014 circa sessanta giornalisti sono stati assassinati, dei quali quasi un quarto apparteneva alla stampa internazionale.
Il CPJ è un’associazione creata nel 1981, con sede centrale a New York, che da oltre vent’anni documenta i casi di uccisioni, imprigionamenti ed esilii che riguardano i giornalisti locali ed internazionali. I dati del 2014 sono ancora più inquietanti se rapportati con quelli degli ultimi tre anni, come confermato dalle parole di Joel Simon, direttore esecutivo dell’organizzazione: “Questo è il periodo più pericoloso che io abbia mai visto per essere un giornalista. Storicamente, i giornalisti locali hanno sempre dovuto tener conto del pericolo ed è così ancora oggi. Ma l’aumento degli attacchi ai giornalisti internazionali dimostra che, nelle condizioni attuali, chiunque potrebbe essere un bersaglio”. Frasi che lasciano poco spazio alla libera interpretazione: al giorno d’oggi, essere giornalisti, sia a livello locale, sia internazionale, comporta spesso seri rischi per la propria incolumità.
In ogni epoca ed ovunque, soprattutto in particolari situazioni socio-politiche, il lavoro di documentazione degli avvenimenti e conseguente divulgazione delle notizie ha sempre presupposto specifici pericoli; il lasso di tempo che va dal 2011 ad oggi, però, come sottolineato dalla CPJ, è quello che registra più morti fra i giornalisti fra tutti i periodi monitorati dalla stessa organizzazione. Ha poca rilevanza, inoltre, la tendenza alla diminuizione delle morti negli ultimi tre anni (dai 74 morti del 2012, si è passati ai 70 dello scorso anno fino ad arrivare ai 60 del 2014), poiché in varie parti del nostro pianeta, le condizioni di sicurezza, non solo dei giornalisti, ma anche delle popolazioni locali, sono drasticamente peggiorate.
I giornalisti internazionali che quest’anno, e non solo, sono stati maggiormente convolti in assassinii provenivano da paesi occidentali: ne è un lampante esempio Anja Niedringhaus, celebre fotoreporter tedesca uccisa ad aprile da un ufficiale di polizia in Afghanistan alla vigilia delle elezioni presidenziali del paese asiatico; casi ancor più recenti sono quelli di James Foley, fotoreporter statunitense rapito nel 2012 durante il conflitto civile siriano e barbaramente decapitato da un membro dell’ISIS, e di Steven Sotloff, giornalista anch’egli trucidato da un componente dell’autoproclamato Stato Islamico. In entrambi quest’ultimi due casi, le spietate esecuzioni sono state documentate con dei video, poi fatti circolare su Internet, per dimostrare l’efferatezza degli assassini e la loro determinazione nel colpire e scoraggiare i giornalisti occidentali a viaggiare in quei territori.
Malgrado i grandi rischi che vivono i giornalisti occidentali nelle zone di guerra, le minacce maggiori in questi territori interessano quelli locali, ovvero coloro che sono nati e vivono circondati dai loro futuri sicari: una delle regioni dove tale fenomeno è più rilevante è la Siria, divenuta ultimamente off limits per i reporters stranieri e che vede, contemporanemente, la fuga di molti corrispondenti locali per l’enorme stato di tensione vissuto nel Paese.
Proprio nella nazione siriana, il CPJ ha rilevato il tasso più alto di morti fra reporter nell’anno corrente, circa diciassette che, drammaticamente, raggiungono quota settantanove se vengono annoverati anche quelli uccisi dal 2011, anno in cui è iniziato il conflitto in quella zona. E non è solo la Siria, il problema, bensì l'intera area. Quasi la metà dei delitti che interessano i giornalisti nel 2014, inoltre, è avvenuta nei paesi del Medio Oriente, principalmente in Iraq e nei territori fra Israele e quelli della Palestina occupata.
Altre nazioni, invece, hanno vissuto simili precarie situazioni per quanto riguarda la sicurezza degli operatori dell’informazione solo recentemente, come la Birmania, il Paraguay e, soprattutto, l’Ucraina: nel paese europeo, i dissidi e le tensioni fra gli ucraini e la popolazione filorussa hanno fatto incrementare uno stato di insicurezza nel quale, purtroppo, cinque reporters hanno perso la vita quest’anno.
L’avvertimento lanciato dal CPJ ha quindi solide credenziali per essere seriamente accolto da tutti i governi affinché sia protetta una prerogativa inviolabile per l’umanità oggi fortemente minacciata: il diritto all’informazione.