«Muslim populations have been penned in for years, and when the gates open, it will be a rough ride. Islamists will win the first elections, but will they win the second? If Islamists do not deliver once in power, they will fail» (Graham Fuller, 2003)
C’era una volta un presidente americano che aveva deciso di andare a portare la democrazia al mondo arabo. Cominciando dall’Iraq. Succedeva lo stesso anno in cui, a proposito di democrazia nel mondo arabo, Graham Fuller faceva un’ipotesi del tutto diversa: la democrazia, diceva, è un processo, una tappa dell’evoluzione politica legata all’evoluzione dello sviluppo più in generale. Insomma, la democrazia è l’ultima tegola del tetto di un edificio; e non si può costruire un edificio partendo dal tetto.
Si sa cos’è successo cercando di costruire il nuovo Iraq partendo dal tetto. Si sa meno, invece, cos’è successo alle “primavere arabe”, cioè a quei movimenti di aspirazione alla democrazia che sono spontaneamente emersi dallo sviluppo, e che sono esplosi quando è apparso evidente che quei paesi non erano più «penned in», rinchiusi dentro un recinto (o che lo erano molto meno del passato, grazie, tra l’altro, alla magra figura americana in Iraq).
In alcuni paesi, le “primavere” sono state dirottate dal massiccio intervento esterno: della Francia (ma non solo) in Libia; della Russia, dell’Iran, della Turchia, dell’Arabia Saudita e del Qatar (almeno) in Siria. In quei casi, la primavera è degenerata in un sanguinoso inverno di guerre civili di cui non si vede la fine.
In altri casi, le “primavere” si sono incanalate in processi di normalizzazione democratica. Ci sono state le elezioni e, come Fuller aveva previsto, le hanno vinte gli islamisti. Era una previsione tutto sommato facile: quando questi paesi erano «penned in», tutte le forze politiche e sociali non allineate ai regimi in carica erano state perseguitate, soppresse e bandite, e i loro leader, militanti e simpatizzanti erano stati arrestati, esiliati o uccisi. Oltre alle manifestazioni ufficiali, l’unica forma di assemblea autorizzata era la preghiera nella moschea, e l’unica figura pubblica non governativa era l’imam.
Una grande Polonia araba, insomma. In Polonia, sotto il regime filosovietico, l’unica alternativa al governo era la Chiesa: e nessuno si stupì che, al crollo del regime, il partito della Chiesa vincesse le elezioni.
Così, in Tunisia e in Egitto, gli islamisti vinsero le elezioni. Ma le difficoltà, per loro, non facevano che cominciare. Non solo le difficoltà provenienti dall’esterno, cioè da quei paesi (tutti, o quasi) che rimpiangevano i dittatori e diffidavano dei governi eletti democraticamente. Ma soprattutto le difficoltà interne, quelle a cui si riferiva Fuller nel 2003.
Per un partito che fonda la sua legittimità sui sentimenti religiosi, la sfida è infatti più ardua che per un partito laico: un partito religioso promette di riuscire nella sua impresa perché – implicitamente o esplicitamente – afferma di avere Dio dalla sua parte. Di fronte ai suoi insuccessi eventuali, i suoi detrattori diranno che ha fallito perché è stato troppo religioso, o perché non lo è stato abbastanza. Insomma, a meno di un successo trionfale della sua politica (come è stato per esempio il caso dei primi dieci anni di Erdogan in Turchia), il partito religioso ha nella sua natura stessa il dispositivo del suo futuro insuccesso (come, d’altronde, in Polonia).
«Islamists will win the first elections, but will they win the second?». Uno dei miei studenti, a cui avevo letto questa frase di Fuller all’epoca delle prime elezioni in Tunisia e in Egitto, aggiunse un’altra domanda: «Ma ci saranno, le seconde elezioni?», sottintendendo che gli islamisti avrebbero potuto fare come in Iran.
Le cose sono andate diversamente: in Egitto, non ci sono state, e non ci saranno, seconde elezioni, ma non per colpa degli islamisti. In Tunisia, ci sono state. E gli islamisti le hanno perse.
Se fossi Graham Fuller, direi: come volevasi dimostrare.