Non ha tradito le aspettative, il Summit sul Clima che si è tenuto al Palazzo di Vetro martedì. Come da programma, il vertice è stato una vetrina di buone pratiche (reali o presunte) e una sfilata di buoni propositi. Le 125 nazioni salite sul podio dell’Assemblea Generale hanno sfruttato l’occasione offerta dall’ONU per fare pubblicità alle proprie politiche verdi. Ed è stato tutto un “visto come siamo bravi…”, con i governi che elencavano una serie di misure già avviate o da avviare al più presto.
Questo, nonostante il segretario generale dell’ONU – che questo vertice aveva personalmente voluto – abbia aperto i lavori con uno slogan efficace: “Non siamo qui per parlare ma per fare la storia”. Eppure a New York, lo si sapeva, i leader non sono arrivati con il mandato di negoziare o cercare l’accordo che potesse fare da base per le trattative che dovranno portare, nel dicembre del 2015, alla conferenza ONU sui cambiamenti climatici di Parigi dove si dovrebbe dare vita a un nuovo accordo sul clima, in occasione della Cop21 (Conferenza delle parti) che siterrà nalla capitale francese (qui una cronistoria completa delle conferenze sul clima della United NAtions Framework COnvention on CLimate Change fino all’appuntamento del dicembre 2013).
“I cambiamenti climatici – ha detto Ban Ki-moon (qui il discorso completo) – sono la questione più significativa della nostra epoca. Stanno determinando il nostro presente e la nostra risposta definirà il nostro futuro”. Gli strumenti per affrontare il problema, secondo il segretario ONU, sono già disponibili e alla portata della società civile. “C’è solo un ostacolo: noi”, ha detto Ban Ki-moon ricordando poi che i costi aggiuntivi di un’economia verde sono minimi a fronte di vantaggi monumentali.
A fare gli onori di casa, insieme a Ban Ki-moon, c’era il sindaco di New York, Bill de Blasio che nel suo intervento di fronte all’Assemblea Generale ha fatto notare come i cambiamenti climatici siano particolarmente importanti per le grandi metropoli costiere come New York, vulnerabili ad eventi meteorologici estremi indotti dal riscaldamento globale. “Due anni fa, l’uragano Sandy ha lasciato 44 morti nella nostra città. Ma le tempeste a venire saranno ben più letali. Non ci sono date opzioni”.
Rajendra Pachauri, presidente dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) ha ricordato che l’IPCC ha di recente pubblicato il rapporto sul cambiamento climatico più completo mai pubblicato che dimostra senza ombra di dubbio l’origine antropogenica del cambiamento climatico e la crescente influenza delle attività umane. Allo stesso tempo il rapporto, come ha spiegato Pachauri, mostra che i mezzi per evitare il cambiamento climatico sono disponibili.

Al Gore parla all’Assemblea Generale per l’apertura del Summit sul clima
Alla seduta di apertura hanno parlato anche Leonardo di Caprio, di recente nominato ambasciatore di pace per il clima, e l’ex vice presidente Al Gore, a capo del Climate Reality Project. “Stiamo entrando in un periodo di speranza – ha detto Gore – […]. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è la volontà politica e la volontà politica è una risorsa rinnovabile”.
Alla sessione di apertura sono seguiti gli interventi delle singole nazioni che, più che strutturati intorno all’obiettivo dialogo, sono sembrati mossi dal desiderio di sottolineare i propri meriti e ribadire le proprie posizioni.
Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha esordito con una frase che era forse intesa a spazzare via i sospetti di chi aveva visto nell’attacco di lunedì sera alla Siria un messaggio di indifferenza nei confronti della questione dei cambiamenti climatici, rimasta inevitabilmente soffocata, sia all’ONU che fuori, dalle notizie sui bombardamenti: “Tra tutte le sfide globali che ci ritroviamo a dover affrontare in questo periodo, dal terrorismo, all’instabilità, dalle malattie alle diseguaglianze, il climate change è quella che definirà il futuro in modo più drammatico. […] La minaccia che una volta sembrava distante è entrata nel nostro presente […]. Nessuna nazione ne è immune”.
Obama ha ricordato gli impegni del suo Paese che ha già ridotto le emissioni portandole ai livelli più bassi degli ultimi due decenni e che, dall’inizio del mandato del 44° presidente degli Stati Uniti, ha triplicato la produzione di energia eolica e aumentato di 10 volte quella da solare. “A Copenhagen avevamo preso l’impegno di ridurre, entro il 2020, le emissioni di anidride carbonica del 17 per cento rispetto ai livelli del 2020. Siamo sulla giusta strada e raggiungeremo quell’obiettivo”.
Il presidente ha poi usato l’occasione del vertice ONU anche per annunciare un nuovo decreto con il quale si chiede alle agenzie federali di attenersi a criteri di sostenibilità ambientale nello sviluppo di programmi internazionali. Non proprio un provvedimento rivoluzionario, come si è già affrettata a commentare la stampa americana che ha in generale accolto il discorso del presidente con freddezza.

L’apertura del Summit all’Assemblea Generale
Ma il vero cuore del discorso del presidente è stato un messaggio a quelle nazioni, Cina innanzitutto, che, causa differenze di vedute sulla distribuzione degli oneri per la riduzione delle emissioni globali, avevano provocato (volontariamente o meno) il fallimento del vertice di Copenhagen. Basta con le vecchie divisioni, è il messaggio di Obama. Il problema è di tutti e da tutti deve essere affrontato. Il premier cinese, come anche quello indiano, non è a New York questa settimana: un segnale che da molti è stato letto come una netta dichiarazione di intenti sul futuro di questi negoziati. Ma Obama ha detto di aver incontrato il vice presidente Zhang Gaoli che ha partecipato al meeting di martedì e di avergli ribadito la necessità di lavorare per un obiettivo comune. “Abbiamo una speciale responsabilità a mostrare la direzione: è quello che nazioni grandi come le nostre devono fare. E oggi voglio lanciare un appello a tutti i paesi perché si uniscano a noi. Nessun Paese può affrontare questa minaccia globale da solo. Non ripetiamo gli stessi errori”.
Lo stesso vice presidente cinese ha parlato poco dopo Obama, affermando l’impegno della Cina per combattere i cambiamenti climatici ma allo stesso tempo restando reticente su provvedimenti concreti. “Annunceremo le azioni post-2020 sui cambiamenti climatici non appena possibile […] così come il picco del totale delle emissioni di CO2 il più presto possibile”. Annunci vaghi che lasciano imprecisata la tempistica. L’unico impegno su cui il rappresentante cinese si è spinto un poco più in là riguarda la cooperazione South-South: “Desidero annunciare qui che, a partire dal prossimo anno, la Cina raddoppierà il suo sostegno finanziario annuale per l’istituzione del Fondo di cooperazione South-South sui cambiamenti climatici. Inoltre, la Cina fornirà 6 milioni di dollari per sostenere il Segretario Generale delle Nazioni Unite nel promuovere la cooperazione Sud-Sud sul cambiamento climatico”.
Un concetto che il vice premier ha ribadito poco dopo nel corso di una conferenza stampa in cui ha spiegato: “Ci sentiamo molto vicini ai paesi africani nel modo in cui questi vivono i cambiamenti climatici”. Allo stesso tempo Gaoli ha sottolineato nel suo intervento di volersi muovere nel contesto tracciato dall’UNFCCC: “I principi di responsabilità condivise ma differenti, di equità e di reciproche possibilità devono essere inclusi nei negoziati e nel risultato finale dell’accordo del 2015”. Il vice premier cinese ha così mandato a dire, neanche troppo indirettamente, ad Obama che il principio della responsabilità differenziata – espressione che è l’incubo dei negoziatori – non si tocca. Siamo di nuovo al blocco contro blocco.
Se lo scopo dichiarato dell’incontro era quello di creare uno spazio, un forum per il dibattito, i segnali che vengono dalle due potenze che più di ogni altra fanno la differenza non vanno proprio nella direzione del dialogo. Pochi, inoltre, sono stati i leader che nelle loro presentazioni hanno usato la parola “binding”, facendo presumere che anche quello dell’accordo giuridicamente vincolante resta un nodo ancora da sciogliere. Dietro il podio dell’Assemblea Generale, nel corso della giornata di martedì, ci sono stati altri incontri nei quali, si spera, qualche progresso sia stato fatto. Ma all’esterno (e alla stampa) arriva solo polvere negli occhi. I paesi restano fermi sulle loro posizioni, con buona pace dei cambiamenti climatici.
Nonostante le belle parole, le tante buone idee e le iniziative concrete sia dei governi che dei privati, a livello politico il summit sul clima si conclude avvolto da nuvole cariche di pessimismo. La buona volontà non mancava nemmeno a Copenhagen, ma poi si andò a scontrare con scogli enormi che avevano (e hanno) a che vedere con visioni economiche e politiche. Cosa faccia pensare a Ban Ki-moon e ai leader mondiali che questa volta le cose saranno diverse non è dato saperlo.
Intanto la piazza continua a farsi sentire. Dopo la grande manifestazione di domenica, un ridotto gruppo di attivisti lunedì ha marciato verso Wall Street solo per vedersi bloccare la strada dalla polizia. Per alcune ore i manifestanti sono riusciti a fermare il traffico su Broadway, finché la polizia non ha ordinato lo sgombro minacciando arresti: un centinaio di attivisti sono finiti in manette, inclusi un orso polare, due Captain Planet e un uomo in sedia a rotelle. Tutti sono stati rilasciati nel corso della notte. Chissà che anche la protesta non rischi di finire in un vicolo cieco.