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September 17, 2014
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La speranza arriva dalla Scozia delle comunità opposta a quella delle multinazionali

Francesco ErspamerbyFrancesco Erspamer
Time: 5 mins read

Il principale dogma e fondamento del pensiero unico liberista è che la sola giustificazione razionale di un’azione è il successo. 

Se accettata, questa ideologia comporta due importanti conseguenze, facilmente riscontrabili negli Stati Uniti e in Inghilterra a partire dagli anni ottanta, in altri paesi europei un decennio dopo e ora, in misura crescente, nel resto del mondo. La prima è che chi vince, chi ha successo (i “winners”), aveva ragione; chi perde, non importa per quale motivo (i “losers”), aveva torto. Il libero mercato è insomma totalmente amorale, in quanto giudica un comportamento solo dal suo effetto, dunque a posteriori, e non in base a princìpi o valori condivisi. 

La seconda conseguenza è che, mancando valori autorevoli in sé, in quanto logici o tradizionali, la conferma della validità di un’azione va ottenuta immediatamente o comunque nel minor tempo possibile. Se un prodotto non vende nei giorni o mesi successivi al suo lancio, è abbandonato; se un’impresa rallenta la crescita è assorbita da un’altra, più aggressiva; se una ricerca non garantisce risultati entro pochissimi anni non viene finanziata. La loro eventuale utilità sociale non ha  importanza perché, appunto, non dimostrabile nel breve termine. Coerentemente, se si prevede che le conseguenze negative di un prodotto o di un intervento si manifesteranno a distanza di tempo (anche solo un decennio), non se ne tiene alcun conto, neppure se catastrofiche. Il successo liberista si declina sempre e solo al presente, immemore della storia passata e del tutto indifferente alle ripercussioni future.

La ragione del successo del mito del successo dipende dall’abnorme influenza che i media e il denaro hanno acquisito nell’epoca della globalizzazione in conseguenza della rinuncia a ogni controllo da parte delle istituzioni pubbliche e del loro asservimento agli interessi dei ricchi. Un clamoroso esempio sono gli Stati Uniti, a lungo un modello di democrazia e un esempio di efficace bilanciamento dei poteri, e oggi dominati da Wall Street, con presidenti e membri del governo, buona parte del Congresso, innumerevoli magistrati, governatori, sindaci e sceriffi (che in molti stati sono elettivi), per non dire di giornali e televisioni, strettamente legati alle grandi corporation. In altri tempi e, ancora, in altri paesi si parlerebbe di corruzione: in America si preferisce definirli fund raising e lobbying. A far degenerare la situazione è bastata la sistematica deregulation pianificata da Reagan e dal suo think tank conservatore, completata dalla demenziale decisione della Corte suprema di attribuire alle multinazionali gli stessi diritti dei singoli cittadini, incluso quello di contribuire con illimitate “donazioni” alle campagne elettorali.

Gli intellettuali hanno fatto la loro parte. Gli economisti, in particolare, si sono venduti quasi in blocco al miglior offerente, che ovviamente è la plutocrazia. La loro disciplina è diventata una teologia i cui assiomi possono essere solo accettati, mai discussi, nemmeno di fronte a evidenza contraria. Prestigiose business school come Harvard, spiega Richard Reich, sono responsabili della creazione di una generazione di super-manager che pensano che l’unica loro funzione sia arricchire gli speculatori e soprattutto sé stessi: con il risultato che la proporzione dei salari dei CEO e quella dei lavoratori è cresciuta da 20 a 1 (fino agli anni sessanta) a 300 a 1. Ma la crisi della critica si estende ad altre facoltà, incluse quelle scientifiche e umanistiche. Come mai? In parte per colpa della managerizzazione delle università: una volta circa metà dei professori aveva “tenure”, ossia la garanzia di non poter essere licenziati, se non per gravi inadempienze o irregolarità. Oggi i tre quarti dei docenti sono precari e i repubblicani sono all’offensiva per eliminare interamente i posti fissi. Per cui a dominare, accanto a poche superstar contente di giocare a fare le celebrity, sono gli amministratori, ben pagati e generalmente con scarsa preparazione accademica, in particolare quelli incaricati di speculare in borsa o di convincere ricchi imprenditori usciti da quell’università a donare qualche decina di milioni di dollari. Come i fratelli Koch, che con i loro soldi creano posti ad hoc per professori conservatori. Ovvio che le voci controcorrente diano fastidio, che le posizioni di radicale dissenso non siano tollerate o comunque vengano scoraggiate. Invece di essere laboratori di libero pensiero le grandi università stano diventando fabbriche di conformismo.

Che fare allora? Arrendersi o rassegnarsi? No. Ma bisogna smettere di comportarsi in modo ingenuo. Occorre innanzi tutto abbandonare la velleità di competere con il liberismo sul suo terreno. Non riusciremo mai a mettere insieme più denaro dei conservatori, non potremo mai aspettarci dai media un’imparziale resoconto dei fatti né dai più famosi intellettuali delle prese di posizione davvero originali e coraggiose. Ma si può lavorare nelle comunità, in mezzo alla gente reale. I nostri strumenti non possono che essere la razionalità (e dunque la continua vigilanza), l’esempio (e dunque la coerenza), l’organizzazione (e dunque la preparazione). Se qualcuno propone le scorciatoie della visibilità e del mercato, e le spaccia per pragmatismo, lasciatelo perdere.

Il referendum in Scozia è un importante segnale: basta leggere l’intervento dello storico Neill Ferguson, un altro tipico intellettuale-celebrity perfettamente organico al pensiero unico liberista, il quale sulle pagine del New York Times ha annunciato catastrofiche conseguenze se gli scozzesi non voteranno “nae”: “Gli investimenti sono già calati. Grosse multinazionali progettano di spostare le loro sedi in Inghilterra. Posti di lavoro saranno perduti. Il recente calo della sterlina dimostra che l’alta finanza detesta la prospettiva”. I soliti ricatti che i ricchi ci ripetono da trent’anni per giustificare i loro paradisi fiscali, i loro merger e monopoli, le loro delocalizzazioni e pratiche di outsourcing, lo smantellamento dei sindacati. È sempre così: quando i privilegiati o i loro portavoce annunciano l’apocalisse è perché temono di perdere qualche privilegio: loro, non la gente ordinaria di cui improvvisamente fanno finta di preoccuparsi. Se gli fregasse qualcosa della gente ordinaria non la spremerebbero fino al momento in cui proprio non ne può più e non continuerebbero a chiedere sacrifici senza farne, loro, nemmeno uno. La degradazione dell’ambiente, il declino della cultura, il disfacimento dei vincoli di solidarietà, sono solo colpa loro, della loro immensa, imperdonabile avidità. Mi fa solo piacere che oggi provino un minimo di disappunto nell’accorgersi che non tutti si bevono le loro favole.

Non per questo la Scozia necessariamente conquisterà l’indipendenza. Penso anzi che ancora una volta i soldi e il timore avranno il sopravvento. Ma non importa: non è che l’inizio. L’errore sarebbe adeguarsi alla logica liberista del successo immediato e abbandonare la lotta. Non possiamo permettercelo. Nel breve termine vincono sempre loro, quelli dotati d’illimitate risorse finanziarie, quelli che controllano i media e non hanno scrupoli a manipolare l’informazione, quelli che, quando necessario, possono fare ricorso alla brutalità della polizia. Una simile concentrazione di potere la si può incrinare solo con la tenacia dell’impegno, con l’organizzazione, con la creatività. Moltiplicando i movimenti autonomisti, creando barriere alla circolazione dei capitali, recuperando un senso di comunità e di appartenenza, contro la frammentazione dei popoli in docili consumatori a un tempo stesso omogeneizzati (identità delle merci e dei desideri indotti) e individualisti (isolamento dei fruitori). Nella lunga durata, combattendo ogni battaglia senza demoralizzarsi per le inevitabili sconfitte e anzi usandole per far prendere coscienza alla gente – una vecchia espressione, ma ancora essenziale per far capire la specifica strategia politica della sinistra.

 

 

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Francesco Erspamer

Francesco Erspamer

Nato a Bari, cresciuto a Parma e in Trentino, laureato a Roma, professore a Harvard. Mi interesso di letteratura, politica, storia delle idee e cambiamenti culturali. Insegno corsi su estetica, romanzo moderno e contemporaneo, Rinascimento, calcio. Di recente ho scritto: La creazione del passato, Sulla modernità culturale e paura di cambiare, Crisi e critica del concetto di cultura. Come Gramsci, penso che al pessimismo della ragione occorra accompagnare l’ottimismo della volontà, e come James Baldwin, che la libertà non la si possa ricevere in dono: bisogna prendersela.

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