La vittoria di Recep Tayyip Erdoğan nelle prime elezioni presidenziali dirette in Turchia è l’occasione per un rilancio in grande stile delle accuse di autoritarismo strisciante e di progressiva islamizzazione della società rivolte da qualche tempo dall’Europa all’ormai prossimo ex primo ministro turco.
Eppure, negli anni immediatamente successivi alla sua ascesa al potere, nel 2003, Erdoğan godeva di un discreto successo di critica, e il suo partito islamista – il Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) – era salutato con un gratificante (o almeno questa era l’intenzione) paragone con i partiti democristiani europei. Oggi, a più di dieci anni di distanza, chi volesse parlare dell’AKP in termini di “democrazia musulmana” sarebbe quantomeno tacciato di compiacenza verso l’islamismo montante.
Da un punto di vista geopolitico, però, l’ascesa dell’islam politico e l’ascesa di Erdoğan sono due fenomeni inseparabili. Si può dire che la Turchia di oggi “faccia” Erdoğan più di quanto Erdoğan non “faccia” la Turchia di oggi. Il successo dell’AKP, come d’altronde quello del suo predecessore islamista Necmettin Erbakan e del suo Partito del benessere nel 1996, è infatti la forma elettorale della conquista di Istanbul da parte dell’Anatolia.

Bacino del Danubio
Storicamente, il nucleo territoriale attorno a cui ruota la storia ottomana (e attorno cui ruotava la storia bizantina) è il mar di Marmara, e la sua proiezione “naturale” di sviluppo è verso il bacino del Danubio, non verso le brulle e inospitali montagne dell’Anatolia. La penisola anatolica, con l’eccezione di qualche centro prossimo alla costa, costituisce un solido bastione difensivo: il suo ruolo è di conservare, di garantire la preservazione e la continuità del paese. Il mar di Marmara e la sua proiezione europea sono invece la via dello sviluppo: il loro ruolo è di progredire, di mantenere il paese al passo coi tempi. L’impero bizantino ha iniziato il suo declino con la perdita dei suoi avamposti al di là della penisola balcanica. L’impero ottomano ha iniziato il suo declino con la perdita dell’Ungheria, dopo il fallito secondo assalto a Vienna, nel 1683.
Storicamente parlando, dunque, l’“occidentalizzazione” della Turchia non è cominciata con Kemal Atatürk, negli anni Venti, ma con la conquista di Costantinopoli, nel 1453. E il vero spostamento dell’asse geopolitico turco verso l’Anatolia non data dal trasferimento della capitale ad Ankara, ma dallo sviluppo capitalista degli anni Cinquanta e Sessanta, che ha spinto milioni di contadini anatolici ad emigrare verso il mar di Marmara. Istanbul, che aveva mezzo milione di abitanti al momento della fondazione della repubblica nel 1923, e circa il doppio agli inizi degli anni Cinquanta, ne conta oggi più di quattordici milioni. La religiosa e conservatrice Anatolia ha conquistato la laica e progressista Istanbul.

Turchia fisica
Recep Tayyip Erdoğan è l’interprete politico principale di questa svolta anatolica. Che ha portato con sé, tra l’altro, l’inizio della soluzione del problema curdo, cioè di una popolazione di origine anatolica che, nel frattempo, ha fatto di Istanbul la più grande provincia curda del paese.
La svolta anatolica ha anche corrisposto ad uno spettacolare decollo economico della Turchia. Una parte dei milioni di contadini approdati sulle rive del Marmara si sono trasformati in quella “classe media pia” identificata dalla sociologia, che ha innestato energie fresche e dinamiche in un tessuto produttivo ormai spossato dal declinante capitalismo di Stato.
È qui che il paragone con la Russia di Putin traligna. Infatti, mentre Putin ha stroncato le velleità di ascesa sociale della piccola borghesia emersa dopo il crollo del fatiscente capitalismo di Stato sovietico, Erdoğan ha esaltato quelle sorte in terra turca, assecondandone i bisogni tanto sul piano economico che su quello culturale e religioso.
L’islam è, per ora, la tela di fondo dello sviluppo turco. Siccome la modernizzazione porta sempre con sé elementi di secolarizzazione, non è detto che questa tela non cambi, col tempo. Per ora, comunque, Erdoğan se ne serve anche sul piano della politica estera. Se il baricentro del paese si allontana dall’Europa, se la Turchia si “anatolizza”, il peso geopolitico si sposta inevitabilmente verso il Medio Oriente e l’Asia Centrale, dove l’islam è strumento d’azione e d’influenza politica.
È questo, soprattutto, che indispettisce gli europei. I quali avevano salutato, nel 2003, il “gran rifiuto” opposto da Erdoğan alla richiesta americana di usare la base in Incirlik per i raid contro Saddam. Fino alla crisi del 2008, gli europei avevano dettato al governo turco, con severo e inappellabile cipiglio, le regole di buona condotta per poter aspirare ad una fantomatica (e sempre procrastinata) adesione all’Unione. La crisi del Vecchio Continente, e il contemporaneo successo economico della Turchia hanno finalmente reso chiaro che il paese di Erdoğan, pur non rinunciando in prospettiva all’Europa, ha intenzione di camminare innanzitutto sulle proprie gambe.
Naturalmente, in questa pretesa di indipendenza, in questo sussulto di dignità nazionale – religiosa e ottomana – v’è necessariamente una forte componente di spacconeria, o, se si vuole, di bluff politico. La Turchia è la 17a potenza economica del pianeta, e la strada è ancora lunga. Ma forse proprio in questa esigenza di spacconeria sta la ragione ultima della “tendenza autoritaria” di Erdoğan: per evitare, fin dove possibile, che quella parte di bluff sia pubblicamente svelata.