Una vittima su quattro, a Gaza, è un minore e ogni ora viene ucciso un bambino palestinese. Lo rivela un report di Save the Children uscito lunedì, nel giorno di Eid al Fitr, in cui si festeggia la fine del Ramadan. “Dopo 21 giorni di conflitto – si legge sul comunicato stampa – i minori di Gaza stanno pagando il prezzo più alto […] Anziché giocare per le strade come normalmente fanno quando si celebra la fine del Ramadan, migliaia di minori a Gaza stanno piangendo i propri genitori nei cimiteri e in centinaia sono seppelliti con le loro famiglie”.
Nel giro di tre settimane sono morti ben 1.100 palestinesi (per la maggior parte civili) e 53 soldati israeliani. Più di 100.000 bambini hanno dovuto lasciare le proprie case, rifugiandosi soprattutto in scuole, luoghi che poi non sono neanche tanto sicuri, considerando il recente bombardamento (da parte delle forze aeree israeliane che, però, puntano il dito contro Hamas) di una scuola dell’UNRWA (Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi) a Beit Hanoun, in cui sono morte 17 persone, tra cui 7 bambini. Altre 130 scuole sono state danneggiate e 22 ospedali distrutti o quasi. Tra gli sfollati ci sono anche 5.000 donne incinte e, per le circa 45.000 future mamme palestinesi, l’accesso alle cure materne è ridotto. Le organizzazioni locali hanno rilevato un raddoppio dei parti prematuri, dovuti ai traumi subiti dalle donne in questi giorni. Sono invece 194.000 i minori di Gaza che, attualmente, hanno bisogno di un supporto psicologico specialistico, dopo aver assistito alla morte o al ferimento dei propri cari.
Ma quali sono le conseguenze psicologiche dell’esposizione continua alla violenza, durante la fase di crescita? Per rispondere alla domanda, non essendoci dati relativi alla guerra in corso, dobbiamo recuperare uno studio condotto dall’UNICEF un anno fa, che mirava a monitorare la situazione dopo i bombardamenti del novembre 2012 (che provocarono 174 morti, 1.399 feriti e la distruzione di 450 case e 105 scuole). Il primo dato emerso indicava che il 97% dei minori interpellati aveva visto cadaveri o corpi feriti, e che il 47% di questi aveva assistito direttamente all'uccisione di persone. I sintomi rilevati durante lo studio includevano: continui incubi e flashback; paura di uscire in pubblico, di rimanere soli, o di dormire con le finestre chiuse, nonostante il freddo; più nello specifico, i disturbi fisici più frequenti erano disturbi del sonno, dolori corporei, digrigno dei denti, alterazioni dell’appetito, pianto continuo, stordimento e stati confusionali; quelli emotivi includevano rabbia, nervosismo eccessivo, difficoltà di concentrazione e affaticamento mentale, insicurezza e senso di colpa, paura della morte, della solitudine e dei suoni forti. La conseguenza più diffusa era il Disturbo post-traumatico da stress (DPTS), ovvero l’insieme dei disagi psicologici che possono essere una possibile risposta dell’individuo a eventi traumatici o violenti. Il DPTS è chiamato anche “nevrosi da guerra”, proprio perché i primi casi furono riscontrati tra i soldati coinvolti nei combattimenti o in situazioni belliche di particolare drammaticità. Il DPTS include spesso anche lo sdoppiamento della personalità, il raccontare eventi vissuti in prima persona (spesso le circostanze in cui sono stati uccisi i propri genitori o è stata distrutta la propria casa) come se fossero accaduti ad altri, senza emozioni, mostrando una grave dissociazione tra chi racconta e l’evento narrato.
Si tratta di sintomi frequenti in qualunque territorio martoriato da una guerra ma, nel caso dei bambini di Gaza, la situazione diventa ancora più insostenibile, sia per l’alta percentuale di minorenni nella Striscia (circa la metà della popolazione, in un territorio tra i più popolati al mondo, con 4.365 persone per chilometro quadrato), sia perché Gaza è una striscia di terra, isolata e circondata da Israele e dal mare perennemente sorvegliato dalla marina dello Stato ebraico. Andrea Iacomini, giornalista e portavoce di UNICEF Italia ha dichiarato che "a Gaza esiste un problema di conflitto permanente in un contesto dove è difficile intervenire perché è come stare in una scatola sigillata da cui non puoi comunque uscire". Secondo Bruce Grant, responsabile UNICEF nei Territori Occupati, "per i bambini un evento del genere mina il senso di sicurezza. Non capiscono cosa stia succedendo e si sentono impotenti. A volte possono persino pensare di essere responsabili del disagio sofferto dalla famiglia".
Lunedì Ban Ki-moon ha richiamato nuovamente l’attenzione sull’urgenza di “evitare un’ulteriore escalation di violenza in questo momento. Tutte le parti in causa devono trovare un accordo che rispetti le leggi internazionali umanitarie, sia riguardo ai civili, rispetto ad attacchi imminenti, sia riguardo al mantenimento della proporzionalità della risposta militare”. Il Segretario Generale dell’Onu ha poi ribadito la condanna del lancio di missili da parte di Hamas e della costruzione di tunnel da Gaza a Israele. Nessun riferimento, però, all’art. 38 della Convenzione dei diritti dell’infanzia, ratificata anche da Israele, secondo la quale i 193 Paesi firmatari, in caso di conflitto, devono assicurare la protezione dei minori, un concetto ribadito anche nella Quarta Convenzione di Ginevra, nonché nella Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell'infanzia e nel suo protocollo opzionale in vigore dal 12 febbraio 2002. Le violazioni di tutte queste carte costituiscono un crimine di guerra, secondo l’articolo 8 dello Statuto di Roma sulla Corte penale internazionale.
“I bambini stanno pagando il prezzo di un fallimento politico – riporta David Hassel, co-direttore di Save the Children nei Territori Occupati palestinesi, nel comunicato diffuso ieri – La comunità internazionale finora ha fallito anche con questi bambini, a causa dell’incapacità di usare tutta la propria influenza politica per porre immediatamente fine a questo spargimento di sangue. La fine delle violenze, come ha chiesto il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, è la priorità immediata. Una soluzione sostenibile che assicuri il benessere sia dei palestinesi che degli israeliani richiederà un accordo tra le parti con misure di lungo termine che diano risposte alle legittime rivendicazioni dei palestinesi, compresa la fine del blocco”. C’è da chiedersi cosa accadrà, una volta finita questa ennesima ondata di terrore, quando le ferite invisibili dei bambini di oggi si riapriranno nel cuore degli adulti di domani.