Come hanno fatto milioni di irlandesi, di italiani, tedeschi, polacchi, ebrei e, più recentemente, asiatici e latino-americani, a diventare americani e, più importante ancora, a sentirsi americani? Hanno sperimentato che la vita negli Stati Uniti era di gran lunga migliore di quella che si erano lasciati alle spalle.
Ovviamente si tratta di una semplificazione. Che sconta gli altrettanti insuccessi, e sovente le ardue difficoltà incontrate in questo processo di assimilazione. Ma si tratta di una semplificazione non troppo lontana dal vero.
Nel suo celebre saggio sul nazionalismo del 1983, Ernest Gellner scriveva che, nel corso della storia, il processo di omogeneizzazione “nazionale” ha seguito essenzialmente tre strade: l’assimilazione, l’espulsione o il massacro delle comunità «diversificate, locali e inferiori». Se è vero che gli Stati Uniti hanno percorso tutte e tre queste strade, è altrettanto vero che il loro processo di assimilazione degli immigrati è uno dei più riusciti al mondo. Un successo non dovuto alla pianificazione di una politica intelligente di accoglienza, che pure qualche volta c’è stata, quanto piuttosto alla prosperità economica del paese, ovvero alla possibilità concreta di provare agli immigrati che far parte della comunità nazionale americana comportava dei vantaggi materiali (e spesso anche morali) sconosciuti nei paesi d’origine.
Tradotto in termini di politica internazionale, la prosperità economica degli Stati Uniti spiega la loro capacità di creare una “comunità occidentale” dopo la loro vittoria nella Seconda Guerra mondiale. Il piano Marshall è solo la forma più immediatamente concreta di un potere di attrazione che, come ricordava Victoria de Grazia nel suo saggio su Mass Culture and Sovereignty, aveva già alimentato le aspettative di ricchezza di milioni di persone del mondo anni, se non decenni, prima che queste si imbattessero in un americano in carne ed ossa.
Si parva licet, Israele aveva tutte le potenzialità per seguire l’esempio americano.
L’episodio del 1948, con l’espulsione violenta di più di settecentomila arabi (circa l’80% della popolazione dell’epoca, secondo alcune fonti), rappresenta il peccato originale di Israele, comparabile ai massacri delle popolazioni aborigene da parte dei coloni americani nella guerra rivoluzionaria e nell’Ottocento.
Ma quell’episodio non può essere valutato al di fuori del contesto dell’epoca. E non parliamo solo dell’indicibile orrore attraverso cui molti degli ebrei riparati in Palestina erano appena passati. Parliamo del contesto generalizzato di purificazione etnica seguìto alla guerra, in Europa, pianificato dai “liberatori”. Innanzitutto i dodici milioni (almeno) di tedeschi espulsi dai paesi dell’Est, con circa 500.000 morti nelle lunghe marce di trasferimento e nei campi di concentramento aperti dai vincitori. Ma anche la deportazione in Siberia di quasi due milioni di tatari, calmucchi, ceceni, ingusci, balcari, caraciai, mescheti in URSS al momento della liberazione (senza contare i 400.000 tedeschi del Volga deportati già nel 1941). E, naturalmente, i 300.000 italiani espulsi dalla Jugoslavia, e le migliaia di “infoibati”.
Questo elenco di atrocità non ha lo scopo di relativizzare le responsabilità dei guerriglieri sionisti (e, dopo il maggio 1948, dell’esercito israeliano) in quella che, nella storia araba, è diventata Al-Nakba, la “catastrofe”. Ha lo scopo di sottolineare come tutte quelle ferite siano state, bene o male rimarginate. Salvo quella palestinese.
Gli Stati arabi non hanno mai voluto che si rimarginasse, perché la persistenza di una “questione palestinese” offriva loro il pretesto per tentare spericolate operazioni politiche e militari allo scopo di affermare la propria egemonia regionale. Ma neppure Israele, deciso a garantire la supremazia numerica degli ebrei nello Stato di Israele, ha fatto nulla perché si rimarginasse.
Eppure, la superiorità economica, tecnologica, politica e militare di Israele, senza contare il talento, la determinazione e la coesione delle primissime generazioni di israeliani, avrebbe potuto fare di quel nuovo paese l’America del Vicino Oriente. Il semplice raffronto delle condizioni di vita medie degli arabi di Israele con quelle degli arabi fuori dai suoi confini sarebbe stato sufficiente a dimostrarlo. Le discriminazioni subite dai primi erano poca cosa in confronto al severo regime di oppressione dei secondi in Egitto, Siria, Giordania e Irak.
Quando, nel 1967, gli israeliani occuparono la striscia di Gaza, gli abitanti locali si accorsero innanzitutto dell’eccezionale miglioramento delle loro condizioni di vita rispetto al periodo precedente, sotto occupazione egiziana. Non è poi così stravagante immaginare che, se Israele non avesse fatto della pregiudiziale etnico-religiosa la ragione della sua esistenza, i gazauiti avrebbero potuto integrarsi e assimilarsi nella società israeliana come gli immigrati europei e asiatici si sono integrati e assimilati in quella americana: conservando le loro tradizioni, religioni e folklore, e diventando al tempo stesso leali cittadini degli Stati Uniti.
Ovviamente, la storia non si fa con i “se” e con i “ma”. È tuttavia importante ricordare – in questa fase di esacerbate tensioni etnico-religiose – che gli odi e i rancori non sono un destino, ma il frutto di scelte politiche deliberate. Per tredici secoli, i musulmani sono stati tutt’altro che ostili agli ebrei: l’antisemitismo è invenzione cristiana ed europea. Molti arabi lo sono diventati grazie ai giochi spregiudicati delle grandi potenze che, nel corso del primo Novecento, hanno aizzato gli uni contro gli altri per garantire il loro dominio sul Medio Oriente.
Israele aveva in mano le carte per far naufragare definitivamente l’odio per gli ebrei. E le ha giocate contro di sé. In un’epoca in cui i soli alleati rimasti, gli Stati Uniti, mostrano sempre maggiori difficoltà ad imporsi sulla regione, l’isolamento rischia di trasformarsi in minaccia esistenziale per Israele.