Dell’appena scomparso Edward Shevardnadze, piace ricordare lo stile con cui interpretò l’ultimo ministro degli esteri dell’era sovietica. Fu l’uomo che, con Gorbaciov, presentò al mondo un tocco più umano e leale di esprimere l’orribile ideologia comunista. Eravamo abituati, in Occidente, al grigio e scostante modo di fare del predecessore, l’incartapecorita cariatide Andrej Gromiko, soprannominato Gaspadin Niet (signor No!) per il vezzo di assumere, nell’arco dei quasi trent’anni trascorsi al vertice della diplomazia di guerra fredda dell’allora superpotenza, sempre e soltanto atteggiamenti negativi e indisponenti verso gli interlocutori occidentali.
Il sorriso aperto da uomo del sud caucasico nascondeva, a noi che ignoravamo tanti interstizi della sua già tormentata biografia, i denti affilati del caimano sovietico di periferia che negli anni ’70, in qualità di Primo segretario del partito comunista, aveva scritto pagine spietate nella nativa Georgia. Shevardnadze corrispondeva con la speranza, al bisogno del mondo di evitare il conflitto nucleare.
I russi di oggi, proclivi al culto dei muscoli e del kalashnikov, corrono dietro a Putin e riprendono a celebrare l’icona dell’”eroico” Stalin. Contestualmente orripilano al ricordare quella che fu, dal 1985, l’accoppiata vincente della Perestrojka, Gorbaciov Shevardnadze, ricordandola come un evento calamitoso per i destini della grande e “santa” madrepatria. Per la mia generazione, al di qua del muro, i due furono la provvidenziale espressione di come l’allora Urss potesse affrancarsi dal ruolo minaccioso sino ad allora interpretato da ogni dirigenza che, dalla fondazione, l’aveva gestita. Per questa ragione, anni dopo, avrei ringraziato Shevardnadze, in visita a Roma come presidente della Georgia, incontrandolo a quattr’occhi prima di un ricevimento ufficiale.
Come capita agli uomini politici di lungo corso, finita l’epopea della liberazione di Russia e vicini dal giogo comunista, Shevardnadze accettò la sfida della quotidianità, finendo per rimediare l’incidente di percorso che avrebbe deciso la sua fine ingloriosa. Nella primavera del 1992, l’ex ministro degli esteri sovietico si ritrovò a capo di quel movimento innovatore e nazionalista che cercava di creare in Georgia, repubblica meridionale dell’ex Urss, uno stato democratico e funzionante. In seguito a quell’esperienza, venne eletto presidente a furor di popolo, per diventare presto un autocrate, incapace di interpretare il bisogno georgiano di trasformarsi per entrare nei ranghi della Nato e dell’Europa.
Nel 2003 verrà abbattuto dalle venti giornate della cosiddetta rivoluzione delle rose. Magistrale maestro di uno stile di governo paternalistico e autocratico, Shevardnadze ritenne di poter declinare democrazia formale e autocrazia sostanziale, ma il popolo non glielo consentì, insorgendo compatto. Favoritismi e nepotismi, spirito di preda e raccolta di bottino erano diventati pratica corrente, facendo dilagare nel paese malaffare, corruzione, evasione fiscale, esportazione di capitali. Lo stato si mostrava incapace di imporre legge e ordine, rovinava la finanza pubblica fino a non poter più pagare gli stipendi e le pensioni dei suoi funzionari, spingendoli a sopravvivere attraverso corruzione e malversazioni.
L’ingloriosa fine di Shevardnadze è una lezione per ogni politico che acquisisca notorietà e viva in posizioni di comando. La tentazione autocratica, sempre dietro l’angolo, è la sicura via per l’ignominia e il severo giudizio della storia. Qualche realizzazione dell’autocrate verrà pure salvata dagli storici, ma il giudizio complessivo sarà di condanna.