Sulla questione israelo-palestinese mi sento preparato ma, per una continua sensazione di frustrazione, avevo deciso di non scriverne. Nel giornalismo, anche quello degli editorialisti, scrivere da frustrati non porta a nulla di buono.
Preparato? Mi capitò da studente di avere come "mentor" l'ambasciatore Hermann F. Eilts, che era stato l'inviato USA in Egitto fino a concludere la pace di Camp David, unico concreto successo diplomatico che gli Stati Uniti abbiano mai raggiunto nello scottante scacchiere mediorientale. Eilts era chiamato "the Arabist", per le sue missioni nei paesi arabi (era stato ambasciatore anche in Arabia Saudita) e soprattutto perché era ritenuto un "filo arabo"… Non era vero, se non per il fatto che da esperto foreign officer, gli ordini Eilts li interpretava nell'interesse del suo paese, gli Stati Uniti.
Molto ho imparato sulla "intrattabile'" questione "israelo-palestinese". Ai suoi graduate student, Eilts ripeteva: della sofferenza del popolo palestinese, dal 1948 continueranno ad approfittarne tutti: per primi i regimi arabi, gli stessi leader palestinesi, poi la burocrazia dell'ONU… E Israele? Certamente, ma non più dei primi due… Altro che filo arabo!
Quindi, dopo la premessa, ecco che scrivo su La VOCE dell'ultima crisi per Gaza. Certo starne fuori, lasciare agli altri columnist il campo, era l'intenzione iniziale. Volevo proprio evitare di scrivere su Palestina-Israele, ogni volta che mi capita di analizzare la "questione", la frustrazione diventa insopportabile, sembra di rivivere il film Groundhog Day con Bill Murray, svegliarsi e ritornare sempre nel medesimo giorno e ripetere tutto daccapo, all'infinito. Ma almeno quella era una commedia dove si piangeva dal ridere. Qui si piangono bambini, come quelli uccisi mentre giocavano a pallone su una spiaggia.
Malgrado le frustrazioni, restar zitti ora ci mette a disagio. Soprattutto quando si assiste ai "balletti" diplomatici al Palazzo delle Nazioni Unite, con le piroette dell'ipocrisia che diventano sempre più spericolate.
Dunque, succede che all'ONU per giorni ci sia il solito bla bla, poi si riunisca in seduta straordinaria il Consiglio di Sicurezza mentre il Segretario Generale vola in Medio Oriente e tutti a dichiarare nei loro comunicati che i civili vanno protetti, sia i palestinesi che gli israeliani. Con Ban Ki-moon e l'appello ad Israele che faccia il possibile per salvaguardare la vita dei civili palestinesi di Gaza… Intanto ogni giorno sempre più donne e bambini palestinesi perdono la vita o saranno più traumatizzati per il resto della loro vita.
Non se ne può più di questa ipocrisia internazionale istituzionalizzata. Oggi, per la seconda volta in sette giorni, al briefing dell'ONU abbiamo chiesto perché dal Palazzo di Vetro su quello che sta accadendo a Gaza tutti si riempiono la bocca di "proteggere i civili" ma senza mai pronunciare la parola "responsabilità"? (Vedi video dal minuto 26:00) Già, che fine ha fatto la dottrina che avrebbe cambiato il diritto internazionale e il ruolo dell'ONU? Quella che ha permesso oltre 15 anni fa l'intervento della NATO in Kosovo? O, appena ieri, in Libia? Ricordate, riunione del Consiglio di Sicurezza, voto della risoluzione… e giù con i bombardieri contro il regime di Gheddafi perché la comunità internazionale aveva la "responsabilità di proteggere" la popolazione civile da un regime che, d'incanto, dopo decenni di grandi affari con tutti, non era più riconosciuto come legittima autorità di governo… Così lo abbiamo chiesto ai portavoce di Ban Ki-moon: perché il Segretario Generale, né il Consiglio di Sicurezza, sulla situazione dei palestinesi di Gaza, non usano mai la frase "responsabilità di proteggere"? E se il Segretario Ban Ki-moon cominciasse ad usarla, non sarebbe l'equivalente di una richiesta al Consiglio di Sicurezza per una risoluzione che preveda un intervento a Gaza? Intervento legittimato dalla constatazione che Hamas ha di fatto perso ogni diritto di autorità sul territorio che dovrebbe governare perché i civili palestinesi, che dovrebbero essere sotto la sua protezione, vengono massacrati? Israele protegge i suoi civili dai missili di Hamas, ma Hamas non protegge i suoi civili dalle bombe israeliane e anzi usa i suoi civili come scudi per i suoi razzi. Che ci facevano i razzi in una scuola dell'ONU?
Ecco che allora ci chiediamo e chiediamo: perché Ban Ki-moon non chiede l'intervento della comunità internazionale per Gaza? Caschi blu armati che vadano a proteggere le donne e i bambini che soffrono le conseguenze di quando Hamas spara fregandosene della popolazione civile che dovrebbe proteggere?
"Ban Ki-moon è nella zona per cercare di raggiungere il cessate il fuoco…" ci hanno detto. Ma la domanda, rimasta senza risposta, era sul perché non ci si appelli alla responsabilità di proteggerli questi civili, come fu nel caso della Libia… Forse la vita di un palestinese di Gaza non vale quanto quella di un libico? Come? Ah, già, non c'è il petrolio a Gaza.
E Israele, che ne pensa di questa "responsabilità di proteggere?" Si ritirerebbe per lasciare sotto il controllo dei caschi blu Gaza, che nella missione di protezione della popolazione civile, dovrebbero anche impedire il lancio di razzi verso Israele, come avviene con la missione ONU a comando italiano nel sud del Libano?
A queste domande, non abbiamo ricevuto risposte. Non dai portavoce di Ban Ki-moon, né dalle dichiarazioni del Consiglio di Sicurezza, meno che mai dalla missione di Israele.
Risponderanno? Intanto a Gaza donne e bambini restano senza protezione alcuna in un inferno di piombo.
P.S. Ma per Barack Obama? Non vale più per il capo della Casa Bianca il diritto-dovere internazionale della "responsabilità di proteggere", quello per il quale era pronto a bombardare persino Damasco? Alla prossima crisi internazionale forse lo ripresenteranno, questo principio. Ma per Gaza e per i palestinesi che ci vivono, per quelle donne e quei bambini, quel principio non vale mai.