Per provare a capire dove possa portare l’attuale inasprimento delle tensioni nel Vicino Oriente bisogna ricorrere una volta di più all’esercizio retorico della ricerca delle motivazioni delle parti in conflitto.
Si tratta di un esercizio retorico per due ragioni: la prima è che ci si può fondare solo su delle ipotesi; la seconda è che in tutti i conflitti, e specialmente in questo, non è affatto detto che le motivazioni iniziali abbiano ancora un senso, o non siano invece state travolte da una concatenazione di eventi sfuggita al controllo razionale delle parti in causa.
Un esercizio retorico, dunque, ma indispensabile, per sottrarsi alle valutazioni esclusivamente emotive, che pure la situazione in corso alimenta e giustifica.
Abbiamo già detto qualcosa sulle possibili motivazioni di Israele. Il mantenimento della situazione di stallo, senza delimitazione delle frontiere, con il nemico palestinese diviso e confinato in un limbo giuridico, costantemente minaccioso ma raramente letale sembra essere l’opzione dei governanti israeliani. Il perseguimento di questo scopo implica tre scelte calcolate: far prova di una certa ruvidezza nei confronti degli alleati americani; coltivare le divisioni tra i palestinesi; fare in modo di tenere sempre accesa la fiammella della minaccia.
Su questa opzione, Israele sta cementando una sua (relativamente) nuova identità nazionale. Una nuova identità imposta dalla profonda trasformazione delle relazioni internazionali esistenti all’epoca in cui lo Stato di Israele è sorto, nel 1948.
Come ha scritto Zvi Bariel il 16 luglio su Haaretz, «Hamas has become the main glue of Israel’s national solidarity». Ma, a dispetto dell’auspicio dello stesso Haaretz di riorientare in senso pacifista la politica del paese, il tentativo di coesione nazionale attorno alla (vera o presunta o esagerata) minaccia esterna sembra riuscire: oggi come oggi, il primo ministro Benjamin Netanyahu incarna l’unità nazionale; la stragrande maggioranza della popolazione, compresa l’opposizione laburista, è dietro di lui.
Israele può contare su altri numerosi atout. Primo fra tutti, l’incapacità sempre più manifesta di Washington di mantenersi in piedi sullo scivoloso terreno mediorientale. La politica di ripiego di Barack Obama (su questo e su altri fronti) non dipende tanto dall’indole affabile dell’attuale inquilino della Casa Bianca quanto dall’ormai acclarata impossibilità, per gli Stati Uniti, di continuare ad esercitare un’incontestabile autorità su alcune regioni cruciali del mondo.
Il secondo atout è che i vicini regionali di Israele hanno tutti bisogno dello Stato ebraico: come nemico, come spauracchio, come contrappeso, come pretesto per i loro reciproci regolamenti di conti e per le loro faide interne. Per Egitto, Arabia Saudita, Siria, Iran etc., se Israele non esistesse, bisognerebbe inventarlo.
Il terzo è una dirigenza palestinese che non dirige più niente (semmai abbia diretto qualcosa nel passato). In passato, appunto, l’OLP è stato il contenitore dentro al quale si sono combattute le influenze dei vari potentati arabi in lotta per affermare ciascuno la propria egemonia regionale. Dopo che Arafat – dissanguato molto più da altri arabi che dagli israeliani – fu costretto ad arrendersi alla logica del compromesso, il contenitore si è progressivamente svuotato, e ha continuato a sussistere solo grazie alla perfusione israeliana, americana ed europea. Hamas, dal canto suo, si è trovato alla testa di una porzione della Palestina quasi senza volerlo, e comunque del tutto privo dell’esperienza e degli strumenti politici per poter governare.
Non bisogna dimenticare che Hamas è una sorta di invenzione israeliana, importata nei territori occupati nel 1967 allo scopo di sabotare l’influenza dell’OLP sulle popolazioni arabe locali. Quel che piacque ai responsabili di Tel Aviv di allora è proprio ciò contro cui viene puntato il dito oggi: il suo carattere profondamente e esclusivamente religioso, che avrebbe dovuto fare il vuoto attorno all’OLP laica e nazionalista.
Quando l’ex direttore del Mossad, Efraim Halevy, afferma che Israele ha sempre negoziato con Hamas (anche se per entrambe le parti è «inconvenient politically» riconoscerlo), ricorda una complicità che non data da alcuni anni, ma da parecchi decenni. Si potrebbe quasi dire che Israele e Hamas si capiscono meglio di quanto non si capiscano Israele e l’OLP, o anche l’OLP e Hamas.
Perdipiù – altra cosa di cui non ci si dovrebbe scordare – Hamas ha vinto le uniche elezioni serie che si siano svolte tra i palestinesi. Se i paladini della democrazia lo fossero anche quando non vincono i cavalli su cui hanno puntato, si dovrebbe dire che Hamas gode, fino a prova contraria, di una legittimità che l’OLP non ha.
Quella legittimità è stata in realtà dissipata dall’insipienza dei dirigenti di Hamas. I quali, come i loro fratelli maggiori egiziani, si sono persi quando hanno cercato di trasformare i loro slogan religiosi in slogan politici. Come per i loro fratelli maggiori egiziani, la popolarità sociale coniugata alla vacuità politica ne ha fatto lo strumento ideale per chi se ne fosse voluto servire ad altri scopi.
Se, per coltivare le divisioni tra i palestinesi, il calcolo di Israele è di indebolire Hamas, allora potrebbe trattarsi di un calcolo estremamente azzardato. Se Hamas perde quel poco di credibilità che gli resta, a rafforzarsi non sarebbe certo la deliquescente OLP di Mahmud Abbas ma, avverte Halevy, l’islamismo radicale (Jihad islamica, ma anche l’ISIS). È del tutto improbabile che questi nuovi nemici – che secondo molti sono all’origine della gara al rialzo con Hamas – si accontentino di interpretare il ruolo, che fu dell’OLP e poi di Hamas, di minaccia costante ma raramente letale. La fiammella potrebbe trasformarsi in un incendio indomabile.