La vittoria elettorale del BJP di Narendra Modi in India non coglie nessuno di sorpresa. Da mesi gli indiani e le cancellerie mondiali si preparavano al cambio della guardia al vertice del paese. Barack Obama ha subito telefonato al vincitore per congratularsi e indirizzargli una standing invitation, nonostante che fino ad ieri il visto di ingresso negli Stati Uniti gli fosse stato negato per il suo presunto coinvolgimento nei pogrom antimusulmani del Gujarat nel 2002.
Modi è alla testa di un partito – il Bharatiya Janata Party – nato dal vivaio hindutva (nazionalista indù), che considera la religione induista come principio identitario e unificatore del paese. Alcuni suoi leader sono stati alla testa di manifestazioni violentemente antimusulmane, culminate proprio nei massacri del Gujarat, allora governato da Modi. L’avvenire della comunità musulmana – l’India è il terzo paese musulmano al mondo, benché l’80% della sua popolazione sia induista – rappresenta la preoccupazione principale di molti osservatori all’indomani della vittoria di Narendra Modi.
Durante la campagna elettorale, Modi ha messo la sordina a questa posizione tradizionale del suo partito, e ha insistito piuttosto sul successo economico del Gujarat, proponendolo come modello per l’India nel suo insieme. Secondo un’opinione diffusa, la sua vittoria è dovuta essenzialmente al rigetto della corruzione incarnata, agli occhi degli elettori, dal partito della famiglia Gandhi – il Congresso – e al desiderio di “voltare pagina”.
Ma non è affatto detto che questo cambio della guardia significhi anche un cambiamento della politica indiana. Vediamo, per sommi capi, perché.
L’India, secondo la sua Costituzione, è un paese laico. Ma è anche uno dei paradossi politici più stupefacenti del mondo. È un paese composto da circa duemila gruppi etnici, con 25 lingue ufficiali e una divisione netta tra il centro-nord indoeuropeo e il sud dravidico. Per Robert Kaplan, il centro-nord dell’India ha molto più in comune con il mondo persiano che con il mondo dravidico del sud.
Il solo collante identitario dell’India sembra essere la religione. L’induismo si presta a svolgere al tempo stesso le funzioni di religione tradizionale e di religione civile. Per Fareed Zakaria, ciascun induista può declinare la propria fede come più gli aggrada: può essere politeista, privilegiare certe divinità rispetto ad altre, tendere al monoteismo o perfino all’ateismo. Questa plasticità si accorda al carattere polimorfo del paese, lo ricopre e lo rappresenta al tempo stesso.
Lo storico Sumathi Ramaswamy, autore di The Goddess and the Nation: Mapping Mother India, ricorda che il nazionalismo indiano ha creato una nuova divinità – Bhārat Mātā (Madre India) –, sacralizzazione di un territorio la cui ossatura è costituita dalle vie di pellegrinaggio indù; per Ramaswamy, l’identità indiana si fonda sul legame inestricabile di territorio e religione. Secondo la storica e filosofa Meera Nanda, tutti i leader politici indiani, a cominciare da Mohandas Gandhi, si sono necessariamente prestati a quella finzione, al punto che oggi, scrive, «il culto della nazione diventa sempre più indistinguibile dal culto delle divinità indù». Da questo punto di vista, il partito di Modi differisce da quello della famiglia Gandhi solo perché lo ammette esplicitamente.
Dal punto di vista della lotta alla corruzione, non mette quasi conto parlarne: non è mai stata la vittoria elettorale di un partito su un altro che ha eliminato la corruzione. Se Modi non dovesse mantenere la sua promessa di successo economico, gli elettori indiani non mancheranno di accusarlo, innanzitutto, di essere un corrotto. Niente di nuovo sotto il sole.
Tutto sommato, le cose non dovrebbero cambiare molto neppure dal punto di vista della politica estera. La strategia geopolitica indiana – chiunque ne sia l’interprete – punta a combinare l’egemonia regionale nel subcontinente con le ambizioni mondiali.
Quello che potrebbe cambiare, invece, sono i toni. Narendra Modi potrebbe mostrarsi più assertivo non soltanto con il Pakistan – esercizio tutto sommato relativamente facile – ma anche con la Cina. Per gli Stati Uniti, un’India più volitiva con la Cina sarebbe – va da sé – un bel motivo di sollievo. Ma nel quadro di un futuribile accordo con l’Iran, acerrimo avversario del Pakistan, un’India più nervosa con Islamabad potrebbe aggiungere una carta nel mazzo di Washington.
La calorosa telefonata di Barack Obama a Narendra Modi, forse, non è solo un atto di dovuta cortesia diplomatica.