Il viaggio in metropolitana da Manhattan è lungo, si attraversa tutta Brooklyn. Dopo una corsa sotterranea che sembra non finire mai, il treno sale in superficie, tra casette tutte uguali e imponenti housing projects. Poi curva, e davanti agli occhi si apre l'oceano. Capolinea: Brighton Beach. La lunga spiaggia, il boardwalk di legno, anziani seduti sulle panchine per scaldarsi al primo sole di aprile, ristoranti e caffè con i tavolini all'aperto.
Dietro alla spiaggia, un reticolo di strade e palazzi d'inizio secolo, negozi, bancarelle che vendono pane e dolciumi, la metropolitana sopraelevata che lascia filtrare qualche raggio sui marciapiedi e sui passanti. Da lontano, sembra solo un pezzetto di New York affacciato sull'oceano, eppure è già un altro mondo: le insegne dei negozi, i menù dei ristoranti, i cartelloni pubblicitari improvvisati, sono in cirillico: spesso anche in cirillico (accanto all'inglese), a volte solo in cirillico, e passo il tempo a leggere carattere per carattere, cercando di decifrare. Per la strada, nei negozi, sulla spiaggia, nessuno parla inglese. Le facce non sono facce americane, ne riconosco i tratti, gli sguardi, le signore avvolte nei foulards e gli uomini seduti a giocare a carte e a scacchi. Si sente parlare solo russo, ma se faccio attenzione alle parole, a volte riesco a riconoscere l'ucraino, che è in effetti un'altra lingua, anche se qui a New York, come in Italia, pochi lo sanno.
Sono venuta a Brighton Beach alla ricerca di frammenti di voci, di storie, che mi aiutassero a capire cosa pensano gli ucraini e i russi che vivono qui di quello che sta succedendo in un paese che adesso vive una situazione drammatica, e il cui futuro è quanto mai incerto. Brighton Beach è quel che si direbbe un microcosmo, dove vivono e lavorano insieme russi e ucraini. Ci sono anche georgiani, azeri, uzbeki, “ma vivono un po' più giù, più lontano dal mare, dove gli affitti sono meno cari”, mi dice Tatiana, arrivata qui nel 1989 dopo essere transitata per l'Italia per alcuni mesi, “perché a quel tempo dall'Unione Sovietica non si poteva venire direttamente in America”. Sta sistemando il cartello 'affittasi' sul cancelletto di casa. Non vuole affidarsi alle agenzie immobiliari, nessuno qui a Brighton Beach usa le agenzie, meglio il passaparola per trovare gente fidata. Mi chiede se conosco qualcuno interessato, appena sa che sono italiana si illumina. “Amo l'Italia, la gente, il cibo, Roma! Mi piacerebbe tanto tornarci prima o poi!”. Mi chiede se voglio vedere l'appartamento, è al piano terra, dietro a un piccolo cortile di cemento. Tatiana mi spiega che lei e il marito l'hanno appena rinnovato: il bagno con le piastrelle di ceramica, la cucina d'acciaio luccicante, i lampadari. “E' tutto nuovo, anche le finestre, vedi? – mi mostra i vasistas, sono sorpresa di trovarli qui – sono europei, li fanno in Polonia, qui non si trovano e sono molto più solidi ed eleganti di quelli americani”.
Guardandomi intorno, mi rendo conto che New York è lontana, questo è un pezzetto d'Europa. Tatiana mi racconta che viene dall'est dell'Ucraina, dove in questo momento ci sono gli scontri maggiori, e la sua preoccupazione per la sua famiglia lì è immensa. Passa ore davanti alla TV, ascoltando uno dei canali russi che raccontano quel che sta succedendo in Ucraina agli emigrati qui in America e nel resto del mondo. Mi chiedo quale versione dei fatti raccontano, così come me lo chiedo leggendo i giornali italiani, quelli americani, scorrendo in TV i telegiornali francesi, inglesi, arabi, spagnoli. “Non so quale potrà essere la via d'uscita, e ho una brutta sensazione… Vedi – mi spiega – questa è politica. La gente dell'est dell'Ucraina, di Donetsk, di Kharkiv, è nata lì, come anche i genitori, i nonni, lì hanno la loro casa, le loro tradizioni, che sono diverse dalle tradizioni dell'ovest dell'Ucraina, e diverse da quelle della Crimea, e anche diverse da quelle della Russia, ma è normale. Tutti avrebbero il diritto di stare dove sono nati e dove vogliono stare. Invece c'è la politica: mettono un confine, che a volte divide intere famiglie, zio e nipote si devono parlare attraverso una linea di confine, è assurdo!”
Le chiedo se i suoi amici qui sono per la maggior parte ucraini o russi. Sorride. “Nessuno qui ha mai fatto caso se uno è russo o ucraino. Certo, quando vado a fare la spesa in certi negozi sento parlare ucraino, io di solito parlo in russo perché mi viene più facile, ma se qualcuno mi parla in ucraino rispondo in ucraino. Non ho mai sentito questa differenza… io e mio marito poi siamo ebrei, ebrei dell'est dell'Ucraina. Tutta questa cosa terribile che sta succedendo non la capisco proprio. Da una parte tutti sono obbligati a parlare ucraino, anche quelli che di lingua e tradizione sono russi, e dall'altra parte i russi vogliono annettersi l'est dell'Ucraina, è assurdo. È difficile per me da spiegare, soprattutto in inglese. Questa è politica…” ripete, mentre si affaccia alla finestra, da cui si vede un pezzetto di oceano.
Tornando verso la metropolitana sopraelevata, incrocio uomini e donne con le borse della spesa, ragazze dai tacchi altissimi, qualche turista con la macchina fotografica al collo. Brighton Beach, oltre a essere stata fissata sulla pagina (e sulle tavole del palcoscenico) da Neil Simon, è un'immagine vivida nella mente dei newyorchesi e di molti americani, anche se non ci sono mai stati. I primi immigrati a Brighton Beach sono arrivati alla fine dell'Ottocento, con la grande ondata migratoria europea. Mi chiedo – e mi rendo conto solo adesso che nelle mie visite a Brighton Beach negli anni passati non me lo sono mai chiesta – se qui lavorano e vivono più russi o ucraini, e chi è arrivato prima. “Brighton Beach è sempre stata culturalmente sovietica – spiega Yuri Shevchuk, figura autorevole nella comunità ucraina internazionale e docente di lingua e cultura ucraina alla Columbia University – una comunità con una forte identità sovietica e in particolare russo-sovietica. Naturalmente, essendo negli Stati Uniti, qui non si potevano avere istituzioni sovietiche o organizzazioni come il partito comunista, ma c'era un forte senso di identità. La comunità ucraina invece storicamente si era insediata dell'East Village, dove infatti si possono ancora trovare chiese, istituzioni culturali e circoli sportivi ucraini. Ma poi i prezzi sono aumentati, e gli ucraini hanno cominciato a spostarsi dove gli affitti sono più bassi, e molti sono arrivati anche a Brighton Beach. Negli anni – prosegue – ho notato uno spostamento culturale… Io sono arrivato a New York nei primi anni Novanta e a quel tempo, quando venivo a Brighton Beach a fare la spesa (qui si trovano prodotti che non si trovano nel resto di New York, ci sono degli ottimi supermercati!), se parlavo in ucraino mi prendevano in giro, la reazione da parte dei russi era estremamente razzista. Adesso non solo non è più così, ma anzi nei negozi si sente sempre di più parlare ucraino, addirittura si sente musica ucraina in filo diffusione!”.
Parlando con Tatiana, con il professor Shevchuk, scambiando due parole con la cameriera di un ristorante, ho l'impressione che la comunità ucraina a New York (non solo a Brighton Beach) sia una comunità diversificata da un punto di vista sociale e culturale, e immagino che sia lo stesso per quella russa. “È diversificata come lo è la stessa Ucraina, in cui si trovano persone molto impegnate politicamente e attive socialmente, mentre altre sono di mentalità sovietica, diffidano della politica, venendo da anni di totalitarismo” mi spiega il professore che continuo a chiamare professore ma con cui scopro presto di avere un grande amico in comune, uno sceneggiatore georgiano, il mondo è veramente piccolo. “A Brighton Beach una gran parte degli ucraini è costituita storicamente da ebrei emigrati negli anni dell'Unione Sovietica, in seguito anche a un processo di denazionalizzazione, inoltre bisogna tener conto che gli ebrei ucraini non rientrano in quello che è un ebraismo inteso in senso tradizionale, di sionismo, hanno un modo di vivere la loro religione molto distaccato, direi laico”.
Nelle mie passeggiate a Brighton Beach mi fermo a fare due chiacchiere, faccio qualche domanda, è strano ma incontro (o parlano con me) solo ucraini. Eppure i russi dovrebbero essere la maggioranza, dove sono? Chiedo alle persone con cui scambio qualche parola al ristorante, al Brighton Bazar, in un caffè sul lungomare, di poterle fotografare, ma nessuno accetta. La diffidenza è la stessa che ho incontrato altre volte in Italia in momenti e situazioni difficili: ti raccontano volentieri la loro storia, quello che pensano, ma niente nomi e niente foto. Mi siedo all'Ocean View Cafè: in verità da qui l'oceano non si vede, ma si sa che è a soli due isolati di distanza, forse questo è sufficiente… Sono le due del pomeriggio, il caffè è pieno di gente, sento parlare solo russo. Il menù è solo in cirillico, il cameriere dopo avermi detto dobri dien e qualcos'altro che non capisco, si affretta a portarmi il menù in inglese: ordino borscht e poi vareniki ripieni di ciliegia. Al tavolo accanto a me arriva una coppia, lei estrae dalla borsetta una bottiglia di vodka che si è portata da casa; l'Ocean View Cafè non serve alcolici infatti, come la maggior parte dei ristoranti qui intorno. I camerieri corrono da un tavolo all'altro, vorrei sapere da dove vengono originariamente, e come loro anche i clienti che affollano il locale.
La coppia accanto a me non sembra molto amichevole, allora mi giro verso l'altro tavolo, dove Elena, che è qui con il marito e la madre, mi dice che nel ristorante servono specialità ucraine, ma ci sono anche piatti russi, e la maggior parte dei piatti li trovi sia in Russia che in Ucraina che in tutti gli altri paesi dell'ex Unione Sovietica. “Non è che qui facciamo molte distinzioni tra chi è russo o chi è ucraino. Sicuramente uno dei camerieri – me lo indica da lontano – è ucraino. Io sono russa, ma sono arrivata qui tanti anni fa, allora era Unione Sovietica”. Il marito continua a mangiare in silenzio, mentre la madre molto anziana se ne sta seduta, mi osserva, annuisce e sorride: è qui da tanti anni ma non parla inglese. Chiedo a Elena cosa pensa di quel che sta succedendo in Ucraina. “È una situazione terribile, e io, da russa, non so proprio dire chi ha torto e chi ha ragione. Sicuramente Putin non mi piace…”. Il marito continua a mangiare, gli occhi fissi sul piatto. “In realtà credo che non piaccia a nessuno, almeno tra i russi qui, quelli che conosco io…. però vedi, anche i russi che vivono in Ucraina hanno diritto di parlare russo, anche se non giustifico in nessun modo l'uso della forza – si fa più pensierosa – Siamo tutti preoccupati, a Brighton Beach la gente è molto preoccupata”.
Ma intorno a loro, gli americani cosa pensano, cosa sanno dell'Ucraina? Lo chiedo al professor Shevchuk: “Per anni l'Ucraina semplicemente non esisteva nell'immaginario degli americani, per ragioni precise: l'imperialismo russo si è appropriato dell'identità ucraina, della sua cultura, in un continuo processo di 'russificazione'. C'era quindi un vuoto di conoscenza, che è stato spesso colmato da quella che chiamo la 'mitologia russa'… Ora questa crisi, per la seconda volta in anni recenti, ha rimesso l'Ucraina sulla mappa. L'Ucraina è un paese moderno, la sua indipendenza ha solo 23 anni, occorre tempo, e occorre che sia l'Ucraina a costruirsi il proprio futuro”. Mitologia russa? – gli chiedo. “Sì, miti creati dai russi e diffusi dall'opinione pubblica internazionale: che questa sia una scaramuccia di famiglia, tra due 'nazioni sorelle', o che l'Ucraina sia un paese diviso quindi non può essere un'unica nazione. Non è diviso, è diversificato: per storia, tradizioni, usanze, religione, anche. Esattamente come negli Stati Uniti: gli stati del Sud sono diversi per storia, tradizioni, cultura, dagli stati del Nord…”. Immediatamente penso all'Italia, diversificata. E spesso anche divisa.
Torno verso il mare, o meglio, per me è mare, per i newyorchesi è oceano. Me ne sto seduta a guardare la gente che passeggia. Poco distante, Lesya sta facendo delle riprese con un telefonino. “È una bella giornata – mi dice – vengo qui al mare da anni, e mi sono resa conto di non avere, o quasi, immagini di questo posto!”. Parlando con lei scopro che è una regista ucraina, vive a New York dal 2003. Lesya era a piazza Maidan lo scorso febbraio: “Sono arrivata semplicemente come filmmaker, per documentare quello che stava succedendo, quello che è nato come un meraviglioso movimento pacifico, internazionale, fatto di giovani che vogliono costruire un paese democratico, pieni di speranza e di coraggio. Lì, dopo quello di cui sono stata testimone, sono diventata un'attivista”. Mi invita a vedere il materiale che ha girato, una visione per poche persone, prima della presentazione ufficiale tra pochi giorni alla NYU. Ascoltandola parlare, mi rendo conto che nonostante internet, la televisione e i giornali, l'Ucraina è lontana da Brighton Beach. La verità è che noi da qui sappiamo veramente poco. Sul boardwalk, alcuni anziani signori se ne stanno seduti su una panchina al sole: alle loro spalle, una delle numerose case per anziani del quartiere. Chiacchierano tra loro, mi avvicino e li saluto con quelle poche parole di russo che so, contando sul fatto che anche se sono ucraini parlano anche russo, e penso che, essendo io italiana, in caso non si offenderanno. Mi accorgo di essere più preoccupata io di queste cose che non i russi e gli ucraini di Brighton Beach. Chiedo se abitano qui, e di dove sono originariamente: sì, abitano tutti qui, e sono russi. Cosa sta succedendo tra Russia e Ucraina? “Niente di buono, niente di buono…”. Questo è tutto quello che mi dicono, al tiepido sole del pomeriggio.