È molto difficile, se non impossibile, esprimere un giudizio netto, oggi, sulla crisi ucraina. La situazione è, come si dice, “fluida”, e tutto può ancora accadere.
Quello che si può fare, invece, è cercare di aver ben presente le forze e gli interessi in gioco, ed evitare di cedere a due tentazioni molto diffuse: tifare, e cadere nelle semplificazioni.
In Ucraina, le forze e gli interessi in gioco sono troppo numerosi e contraddittori per essere elencati qui. Essi soli, necessiterebbero non di un articolo, ma di un trattato. Per ora ci basti ricordare che, all’interno dei confini di quell’ircocervo geopolitico che è l’Ucraina, esistono forze e interessi sufficienti per trasformarsi in agenti – consapevoli o no – degli interessi delle potenze “esterne”, cioè la Russia, i diversi paesi europei, gli Stati Uniti e, non dimentichiamola, la Cina.
La Russia è, ovviamente, la prima potenza di cui tener conto. Per ragioni storiche e geopolitiche, Mosca non ha nessuna intenzione di perdere la sua influenza sull’Ucraina, né di rinunciare al progetto di Unione eurasiatica, di cui l’Ucraina è un elemento indispensabile. Il “problema Crimea”, o quello delle minoranze russe, in sé non esistono. O almeno non esistono fin quando la Russia non decide di farne il pretesto per tenere Kiev – e i suoi tanti nuovi amici – per i capelli. Beninteso, la Crimea è importante per ragioni strategiche e militari legate agli sbocchi sul mar Nero; ma il controllo della Crimea conta poco, se paragonato al controllo (quale che ne sia la forma) dell’intera Ucraina.
Il progetto strategico a medio termine della Russia è la ricostituzione della sua area imperiale. Non è un progetto di Putin, ma della Russia. Quando sciolse l’Unione Sovietica, in accordo coi presidenti federali di Bielorussia e, appunto, Ucraina, Boris Eltsin ebbe a dire che la Comunità degli Stati indipendenti era «una formazione statale unica, che assicura al tempo stesso la separazione e l’unione delle repubbliche». Boris Eltsin, che fu costretto a sanzionare la separazione, ha cooptato al potere Vladimir Putin per tentare di riannodare i fili dell’unione.
Putin, dal canto suo, può contare su una serie di punti di forza che i suoi avversari non hanno: una presenza militare in Crimea negoziata con Kiev a varie riprese (1992, 1997, 2009 e 2010); una cospicua minoranza russa, che nulla distingue, se non da un punto di vista formale, da un’ancora più cospicua minoranza ucraina russofona; un controllo quasi totale delle fonti di energia del paese; un intreccio di attività economiche che data dall’epoca dell’Unione Sovietica e che non si è mai sciolto; la capacità (e la volontà) di fornire pronto cassa l’aiuto economico di cui Kiev ha bisogno (15 miliardi di dollari, da comparare con la misera offerta di un miliardo avanzata da John Kerry durante la sua visita a Kiev, e colle poche centinaia di milioni promessi da Manuel Barroso).
Questo insieme di condizioni consente a Putin un margine d’azione in cui possono essere spese tutte le armi tradizionali della diplomazia imperiale russa: la minaccia, l’aggressione camuffata, la disinformacjia, ma anche le promesse d’aiuto, e – gioco facile – lo smascheramento dell’ipocrisia dei suoi avversari. Quando americani, e francesi, dicono che nel XXI secolo l’intervento militare in un paese sovrano è inaccettabile, i russi – che erano contrari alla guerra in Irak e che sono stati scottati dalla truffa in Libia – hanno buon gioco nel denunciare la doppiezza degli autoproclamati censori morali di Washington e di Parigi.
Su altri due aspetti da tenere sempre in mente ci siamo già dilungati, e li ricordiamo solo rapidamente: gli interessi degli europei e degli americani non coincidono; gli interessi dei diversi paesi europei non coincidono. Anche se a volte il loro linguaggio di deprecazione sembra identico, si ricordi bene ciascuno tenta, in questa crisi, di cavare le proprie castagne dal fuoco.
Un ultimo aspetto riguarda gli interessi cinesi. Pochi ne parlano, eppure Pechino è lì, dietro l’angolo. A luglio 2013, la Cina e la Bielorussia hanno firmato un “partenariato strategico globale”, comprendente la creazione di un parco industriale per 155.000 operai, con un investimento cinese di cinque miliardi di dollari. In Ucraina, la compagnia China’s Xinjiang Production and Construction Corps avrebbe già acquistato 100.000 ettari di un suolo potenzialmente ricchissimo (l’Ucraina era il “granaio dell’impero”), ma attualmente sottoutilizzato, e, secondo indiscrezioni non confermate, potrebbe arrivare a tre milioni di ettari, equivalenti al 5% del suolo ucraino.
Ma oltre agli interessi economici diretti, Pechino intende giocare un ruolo geopolitico fin qui impensabile. La sua posizione ufficiale, espressa in occasione dell’incontro tra i ministri degli esteri cinese e tedesco il 4 marzo, è per una soluzione negoziale della crisi. La sua posizione ufficiosa risulta invece in maniera molto chiara in un articolo del 5 marzo del Global Times, portavoce dell’ala dura della dirigenza cinese. Intitolato “Backing Russia is in China’s interests”, l’articolo spiega che «la Russia e la China sono degli Stati-tampone strategici l’uno per l’altro». Una sconfitta russa «da parte dell’Occidente costituirebbe un duro colpo per gli interessi geopolitici della Cina».
Global Times scrive anche che «la Russia è il partner strategico globale su cui la Cina può contare di più», dimostrando che anche un giornale spregiudicato può giocare sulle mezze verità (o meglio, sulle mezze menzogne). Quel che è certo è che, partner strategico o no, la Cina ha messo un piede in casa russa, e intende restarci. Nessun calcolo strategico di nessuno potrà più prescindere in futuro da questa presenza piuttosto ingombrante.