Da quello che pare di capire, torneremo a parlare molto presto dell’Ucraina. Il compromesso di Kiev, pur senza essere una vittoria per l’Unione europea, è uno smacco per la Russia, che si appresta ora a giocare le sue carte.
Per il momento, la minaccia sembra più potenziale che reale. Sembra soprattutto un segnale che Putin lancia alle nuove autorità ucraine, e, indirettamente, a Berlino: guardate cosa potrei fare se solo volessi. In realtà, se Putin volesse esprimere il suo disappunto in modo inequivocabile, potrebbe agire sui rubinetti del gas: a Kiev, dove la temperatura media in febbraio è di -5° Celsius (23° Fahrenheit), e in marzo di 1° C (34° F), gli effetti sarebbero immediati. Inoltre l’Unione europea, messa di fronte alla richiesta di 35 miliardi di dollari (20 di più di quanti la Russia ne aveva promessi), di cui quasi sette entro venerdì 28, prende tempo e invoca l’intervento del Fondo monetario internazionale. L’Europa, come già si sapeva, non è in grado di prendere il posto della Russia nelle sue relazioni con l’Ucraina, almeno non a breve scadenza. E non può farlo senza il consenso, o più verosimilmente l’accordo, della Russia. Pena la guerra civile.
La crisi ucraina ha, per qualche giorno, oscurato altri focolai di crisi del mondo multipolare. Anche quelli dove la guerra civile è già in corso. Eppure questo 2014 si è aperto all’insegna di una serie di crisi, attuali o potenziali, che toccano anche paesi fin qui additati ad esempio di riuscita economica e politica. Tra i celebrati BRICS, il Brasile, l’India e il Sudafrica stanno affrontando una fase delicata di disinvestimenti di capitali esteri che le autorità locali cercano di compensare allargando i cordoni dei loro tassi di interesse: una manovra che illustra, meglio di dieci trattati di economia marxista, gli spericolati equilibri del capitalismo. La Russia, incastrata come l’Arabia Saudita e il Venezuela nel suo ruolo di esportatore esclusivo di energia, è sensibile ad ogni contraccolpo della produzione mondiale. Altri paesi emergenti già molto dinamici, come la Turchia e l’Indonesia, corrono gli stessi rischi dei tre BRICS sopra citati; e ad essi si possono aggiungere l’Argentina (che reagisce agitando minacce protezioniste) e naturalmente la Thailandia. La Cina è alle prese con la delicata gestione del rallentamento (inevitabile) dei suoi ritmi di crescita: il coro della Cassandre che prevedono la prossima esplosione della bolla cinese (immobiliare e/o finanziaria) è sempre più nutrito.
La guerra civile, intanto, prosegue in Siria, sempre più connessa alla rivalità regionale tra l’Iran e l’Arabia Saudita. Ma la guerra civile è esplosa anche nella Repubblica Centrafricana, nell’indifferenza quasi totale dell’opinione pubblica, nonostante che all’ONU si sia parlato di catastrofe umanitaria e persino di un rischio di “genocidio” come quello perpetrato in Ruanda nel 1994.
I massacri in corso nella Repubblica Centrafricana non rientrano facilmente negli schemi di politica internazionale a cui siamo abituati; questa è una delle ragioni per cui passano in secondo piano. Li si considera al massimo come uno strascico della politica coloniale francese, in una logica che continua a limitarsi al gioco delle solite vecchie grandi potenze (e questa è, a contrario, la ragione per cui l’Ucraina ci pare molto più comprensibile). Inoltre, nella Repubblica Centrafricana, sono oggi i cristiani che stanno perseguitando, cacciando e massacrando i musulmani.
Quando i fatti sconvolgono gli schemi dentro i quali siamo soliti rappresentare la realtà, siamo un po’ tutti infastiditi. Come quando, a casa, troviamo un quadro appeso storto. Tra le poche cose che sappiamo della natura umana è che la pigrizia è una delle manifestazioni dell’istinto di sopravvivenza: «Il cervello è conservatore – scrive il neuroscienziato Alf Rehn nel suo Dangerous Ideas, del 2011 – è un organo che ama gli schemi e le ripetizioni, che detesta e scoraggia le novità». Lo schema cui ci siamo abituati è che sono i musulmani a perseguitare i cristiani, non viceversa. Per questo, nessuno si sogna di dire che, nel Sudan del Sud, sono cristiani che massacrano altri cristiani, come nel Ruanda del 1994. Per questo, un noto giornale italiano partigiano dello “scontro di civiltà” ha trasformato in blocco i cristiani centrafricani armati di machete in “animisti”.
In realtà, la religione c’entra assai poco. C’entra, beninteso, perché è usata come strumento di mobilitazione delle passioni più profonde, come sempre più spesso è accaduto negli ultimi decenni. Ma è solo un pretesto, una scusa, uno strumento, appunto, di altri interessi, che con la spiritualità hanno poco, o niente, a che vedere.
Questi interessi sono scatenati e esacerbati dalla competizione globale del mondo multipolare. Certo, le vecchie potenze europee sono sempre lì, come pure la Russia, e gli Stati Uniti. Da poco, ci siamo abituati, e con fatica, a contare anche il Giappone e la Cina tra le potenze imprescindibili. Ma non basta. Né bastano l’India e il Brasile, o la Turchia e l’Indonesia. Nella guerra nella Repubblica Centrafricana, non è solo la Francia ad essere implicata, ma anche il Ciad e il Sudafrica, e dietro a questi due attori locali spunta la mano della Cina.
Nel mondo multipolare le tentazioni si moltiplicano: non solo aumenta il numero dei tentatori ma anche, inevitabilmente, di quelli che si lasciano tentare.