Il mantra continentale – “soluzioni africane ai problemi africani” – ha subito un altro duro culpo. Truppe mandate dalla Francia – l’ex potenza coloniale – sono state necessarie, nel gennaio 2013, per riportare la calma in Mali e contrastare l’offensiva di ribelli islamisti nel nord del Paese. Nello scorso dicembre, su ordine di Parigi, altre truppe francesi sono state inviate a Bangui per disarmare i ribelli, contenere le violenze e riportare la pace in una nazione, la Repubblica Centroafricana, affetta da decenni di malgoverno e corruzione.
Alla vigilia del 22esimo Summit dell’Unione Africana che si svolgerà ad Addis Abeba, Etiopia (28-31 gennaio), i governi del continente faranno il punto sulle due crisi. Discuterranno la problematica stabilizzazione della Libia dove nuove ondate di violenza vedono protagoniste fazioni islamiste e ex-sostenitori di Muhammar Gheddafi. Ma anche le buone notizie che arrivano dal Sud Sudan, dove un cessate il fuoco tra il governo legittimo di Slava Kir e le fazioni di Riek Machar rende possibile l’assistenza a sfollati e rifugiati. Al centro delle discussioni sarà però la tanto attesa African Stand-by Force, il progetto nato nel 2005 volto alla creazione di un dispositivo militare di “pronto intervento” in teatri di crisi. Cinque brigate regionali – dislocate nelle regioni settentrionali, centrali, occidentali, orientali e meridionali dell’Africa – da 5000 soldati ciascuna. Quella che dovrebbe essere la pietra miliare dell’autosufficienza continentale nelle soluzione delle proprie crisi appare però, ancora oggi, una missione troppo complessa. Una complessità dettata principalmente dalle incoerenze delle grandi potenze africane, incapaci di tradurre in gesti politici concreti le rispettive ambizioni di leadership.
Il Sud Africa di Jacob Zuma, tra i maggiori sostenitori della retorica African solutions to African problems, ha fatto ben poco per il Mali o la Repubblica centroafricana. Limitandosi a proiettare il suo peso politico ed economico nei Paesi vicini, dalla Repubblica Democratica del Congo allo Zimbabwe, dal Mozambico (altra crisi all’orizzonte) al Madagascar. Mentre l’Algeria – altra potenza regionale – è concentrata sul Mali e sulla sua transizione interna (elezioni presidenziali in primavera potrebbero aprire una nuova fase politica ad Algeri), L’Egitto, guidato da un governo golpista, non è in grado di mettere al servizio del continente la sua flotta aerea per il trasporto di truppe africane in zone di conflitto. E poi c’è l’Angola, altro paese emergente. Che scoppia di petrolio. Nonostante un grande esercito e la sua buona disponibilità in termini di forze aeree, l’ex colonia portoghese – terra di immigrazione per valanghe di giovani lusitani – non reputa l’invio di truppe in aree di crisi una priorità di politica estera. Ed ecco che appare chiaro come risorse e mezzi delle forze di pace africane non possano contare solo sul contributo della Nigeria, potenza instabile, alla prese con una vera e propria guerra interna ai gruppi islamisti di Boko Haram.
A dispetto di tali difficoltà, appare però ingenoroso non ricordare come l’organizzazione continentale stia compiendo sforzi enormi in Somalia – con oltre 15mila truppe schierate nel Paese – e che, numeri alla mano, nel solo 2013, oltre 75mila soldati africani hanno partecipato ad operazioni di pace delle Nazioni Unite e delle organizzazioni regionali africane.
L’auspicio è che l’imminente Summit di Addis Abeba possa comunque offrire l’occasione di una nuova riflessione sulle sfide alla pace e alla sicurezza del continente. E, ce lo auguriamo, anche sulla possibilità di prevenire le crisi, piuttosto che reagire ad esse, spesso in maniera tardiva. Con operazioni militari complesse, difficile da dispiegare in tempi rapidi e con tutti i problemi logistici e di risorse accennati. Finchè tali problemi non saranno superati, l’Africa continuerà purtroppo a dipendere dagli interventi francesi, dal sostegno finanziario europeo e da quello americano.
Ma non è tutto. Nel nuovo maestoso Quartier Generale dell’Unione Africana – progettata e costruita con capitali cinesi – ci sarà tempo anche per discutere di altre luci che animano il continente. L’Africa continua ad ospitare alcune tra le economie mondiali con i più alti tassi di crescita: Mozambico, Etiopia, Angola. Una nuova concezione della progammazione economica per lo sviluppo, fondata sulla buona governance, il rispetto del mercato ed una mano pubblica meno invasiva continua ad emergere. Una sfida certo, per un continente che ospita alcuni dei Paesi più corrotti del mondo (si veda l’ultimo rapporto di Trasparency International). Eppure, gli eventi della primavera araba che hanno colpito la regione settentrionale sono ancora oggi vivi nella memoria di molti leader africani.
È diffusa la convinzione che tutte le economie africane e soprattuto quelle che fondano la propria potenziale ricchezza su materie prime preziose – dal gas al petrolio, dall’oro ai diamanti – debbano redistribuire localmente il reddito e le rendite incassate dai governi nazionali. Un tesoro pubblico, frutto di contratti e licenze assegnate alle grandi imprese multinazionali. E che stride con un fenomeno che riempie gli occhi di ogni viaggiatore e osservatore attento della realtà africana. La crescita intensa di molti Paesi del continente e l’esplosione virtuosa di grandi agglomerati urbani. Un’esplosione però piena di contraddizioni. Carica di disugualianze sociali, geografiche (città-campagna), generazionali e di genere. Inascoltate ed ignorate, sono queste disuguaglianze a gettare i semi della fragilità e dell’ instabilità politica. E di nuove crisi. Anche di questo si parlerà ad Addis Abeba. Ne scriveremo ancora.