Un giorno, mi ricordo, ero nei corridoi dell’università in cui studiavo a Pechino e incontrai la mia professoressa di cinese, una ragazza piccola piccola, tutta occhiali. Al mio saluto lei rispose con un’esitazione e quando infine riuscì, quasi con uno sforzo, a salutarmi in ritorno dicendo il mio nome, il suo viso era raggiante. “Ah, per fortuna,” disse sollevata, “ho detto il nome giusto, sei tu! È che tu e le altre [intendendo le altre studentesse occidentali della mia classe] siete così tutte uguali!”
Che sollievo sentirsi finalmente dire che non solo i cinesi sono per noi “tutti uguali”, ma anche noi per loro lo siamo! Come una sorta di contrappasso liberatorio, il mondo veniva rovesciato tutto intero d’un tratto, come un pallone che rotola, nella banalità di una conversazione di passaggio per le scale.
Ce la meritiamo tutta questa nemesi geo-culturale, noi che dei cinesi siamo usi dirne peste e corna, alle volte senza conoscerli, noi che nei titoli dei nostri giornali i paesi asiatici non li menzioniamo se non saltuariamente e solo in caso di grandi e spesso tragiche notizie.
La netta maggioranza dei quasi 7 miliardi di abitanti del pianeta vive sui 44 milioni di chilometri quadrati del continente asiatico, ovvero quasi il 30% delle terre emerse. Secondo le stime del 2011 del Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione, gli esseri umani che popolano i paesi dell’Asia e dell’Oceano Pacifico si aggirano sui 3 miliardi e 924 milioni e, come se non bastasse, le previsioni dicono che aumenteranno ancora da qui fino alla metà del millennio.
Che si possa ignorare una tale porzione di pianeta quando si cerca di leggere i fatti del mondo mi sembra difficile da credere. Eppure l’allenamento alla ristrettezza mentale mi pare cominci fin dalla scuola.
Per secoli le aule scolastiche (e non solo in Italia) si sono vestite di carte geografiche basate sulla proiezione del cartografo fiammingo Gerardo Mercatore, che distorce le dimensioni e le proporzioni tra equatore e poli, rappresentando l’Europa più grande di quanto in realtà non sia. In verità, la carta di Mercatore era intesa dal suo ideatore solo come supporto per la navigazione e non, come invece è stata usata, come strumento didattico.
Quando nel 1973 lo storico Arno Peters pubblicò la sua mappa del mondo, fedele nelle proporzioni alla reale estensione dei paesi e dei continenti, in molti applaudirono il fatto che finalmente ai paesi più poveri veniva riconosciuta la loro reale portata geografica. La proiezione di Peters aveva ovviamente i suoi difetti, primo fra tutti quello di continuare a voler rappresentare in due dimensioni una realtà sferica, ma ebbe il merito di ricordare che le carte non sono solo semplici strumenti per le lezioni di geografia. A un livello più profondo esse rispecchiano e influenzano le mentalità e le identità collettive, ovvero come noi percepiamo la nostra posizione nel mondo rispetto ad altri paesi e ad altre culture.
Oggi le carte di Mercatore e di Peters tendono sempre più ad essere rimpiazzate da modelli di compromesso, come quello di Robinson o di Hammer, che prendono in conto anche il fatto che la terra è sferica.
Al di là della polemica tra geografi, ciò che bisognerebbe tenere a mente quando si guarda alle cose del mondo con una carta sotto gli occhi, è il fatto che personaggi ed eventi si prestano sempre a prospettive diverse dai diversi punti del globo. E anche che, per fortuna, di prospettive ce ne sono tante e di storia non ce n’è solo una.
Un giorno, mentre studiavamo al liceo le guerre dell’oppio, che diedero luogo, alla metà del 19esimo secolo, all’apertura forzata dei principali porti cinesi al commercio occidentale, mi resi conto di come questo evento fosse una di quelle entrate occasionali mordi e fuggi della storia asiatica nella storia europea (o in questo caso piuttosto viceversa), che restano inesplicabili per lo studente, spoglie come sono di spiegazioni di contesto. Sembra quasi che i cinesi fino a quel momento non c’erano e poi tutto d’un tratto eccoli là, con tanto di impero, strutture statali super complesse, flotte e armate, costumi e tradizioni lunghe di secoli che si sono sviluppate zitte zitte all’altro capo del mondo, mentre noi eravamo intenti a spulciare gli infiniti rami degli alberi genealogici dei potenti d’Europa di sei e settecento o le mille micro-battaglie che divisero la Grecia antica.
Quel giorno allora chiesi al mio professore perché mai, invece di stare a studiare tutte le guerre e guerricciole d’Europa di cui puntualmente ci si scorda il giorno dopo l’interrogazione, non si studiasse piuttosto una storia di più ampio respiro, includendo in parte anche uno sguardo alle civiltà extra-europee.
Volente o nolente intrappolato anche lui, come tutti gli insegnanti del nostro bel paese, nella stretta griglia dei “programmi ministeriali”, evocati a ogni piè sospinto in risposta alle domande di studenti curiosi o svogliati, il professore non trovò di meglio che rispondermi: “Signorina, se le interessa la storia dell’Asia, se la studi da sola.”
E così ho fatto. Durante gli studi universitari ho trovato ispirazione in figure di esploratori e intellettuali curiosi dell’Asia. Da un astuto gesuita, tra l’altro anche cartografo, come Matteo Ricci (1552-1610) al più noto tibetologo italiano e pioniere delle esplorazioni nella regione himalayana, Giuseppe Tucci (1894-1984) – entrambi marchigiani. Dal giornalista e viaggiatore insaziabile Tiziano Terzani (1938-2004), osservatore ironico e attento dell’oriente, al monaco cinese Xuanzang (602-664), che invece intraprese il viaggio in direzione opposta, andando in India alla ricerca di testi sacri buddhisti e diventando poi il personaggio d’ispirazione del famoso romanzo cinese del 16esimo secolo “Il Viaggio in Occidente” (a cui tra l’altro è ispirato il cartone animato giapponese “Dragon Ball”).
Di studiare, si sa, non si finisce mai. Io continuo a farlo, articolo su articolo, in spazi come questa rubrica, sperando di capire pian piano sempre più dell’Asia e di diffondere come posso se non delle conoscenze su questo immenso continente, almeno una certa curiosità, una sensibilità nei suoi confronti, perché gli esseri umani all’altro estremo della carta geografica non ci appaiano più così lontani, così “tutti uguali”.