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November 26, 2013
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Urla all’amico e sorridi al nemico

Manlio GrazianobyManlio Graziano
Il Segretario di Stato John Kerry, il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif e gli altri ministri degli Esteri di Cina, Russia, Francia, GB, Germania e UE a Ginevra annunciano l'accordo

Il Segretario di Stato John Kerry, il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif e gli altri ministri degli Esteri di Cina, Russia, Francia, GB, Germania e UE a Ginevra annunciano l'accordo

Time: 3 mins read

 

Proviamo a continuare ad ipotizzare che la vera posta in gioco dell’accordo sul nucleare iraniano siglato a Ginevra domenica scorsa non sia il nucleare iraniano. O almeno che non sia la principale posta in gioco. Proviamo a continuare ad ipotizzare che la vera posta in gioco sia invece il rapporto tra Washington e Teheran.

Il nucleare, beninteso, si presta bene a una drammatizzazione delle trattative. Specialmente da quando l’ex presidente Rafsanjani ebbe, nel dicembre 2001, l’ineffabile grazia di evocare un possibile olocausto nucleare di Israele. Essendo un argomento di peso, il nucleare ben si presta ad essere un’eccellente moneta di scambio.

Tutti, fra gli attori delle trattative, sanno quello che scappò detto a Jacques Chirac agli albori della corsa al nucleare iraniano: prima ancora che un’eventuale bomba possa raggiungere Israele, Teheran sarebbe già stata rasa al suolo. La stessa cosa, evidentemente, non vale per l’Arabia Saudita, che non dispone, per quanto ci è dato di sapere, di alcun mezzo di rappresaglia adeguato. Per questo, Riyad è forse l’unica capitale in cui la bomba è motivo d’inquietudine reale.

Certo, i paesi del club nucleare vorrebbero difendere i privilegi del loro status, ma anche questo è relativo. Negli anni Settanta, Washington si oppose strenuamente alla bomba pakistana, mentre autorizzava Teheran a costruirsi la sua. Dopo la rivoluzione del 1979 e l’invasione sovietica dell’Afghanistan, il Pakistan si trovò ad essere in prima linea tra gli alleati regionali degli Stati Uniti; Zbigniew Brzezinski scrisse allora a Jummy Carter che la nuova situazione « necessiterà una revisione della nostra politica nei confronti del Pakistan, con più garanzie, più aiuto militare e, ahimé, la decisione che la nostra politica di sicurezza nei confronti del Pakistan non sia dettata dalla nostra politica di non proliferazione» (1979).

Dall’agosto 1945 in poi, il nucleare è stato un’arma politica e non un’arma militare. E continua ad esserlo. Bisogna quindi ritrovare la pista della battaglia politica. Abbiamo in precedenza avanzato l’ipotesi che la vera posta in gioco stia nella necessità per gli americani e per gli iraniani (più per i primi che per i secondi, a dire il vero) di ritrovare la loro amicizia naturale.

Per l’Iran si tratta di uscire dalle secche diplomatiche in cui l’ha portato il fallimento della strategia politica di Khomeini, che puntava ad assumere la leadership del “terzo mondo” musulmano, con un eventuale effetto di trascinamento sul resto del cosiddetto “terzo mondo”. Questa strategia è stata attaccata per differenti ragioni dall’Irak e dall’Arabia Saudita, ed è fallita sul terreno con la sconfitta di tutti i tentativi insurrezionali musulmani negli anni Novanta. A Teheran, sono rimaste poche e inutili, e anche imbarazzanti briciole (Assad, Hezbollah, Hamas), sproporzionatamente minuscole rispetto alle ambizioni persiane; e, quel che è peggio, solo arabe. Per la sua storia e la sua statura, l’Iran vuole giocare in grande; e per farlo, deve dapprima districarsi dalle scaramucce mediorientali e, poi, scegliersi un alleato di razza.

Per gli Stati Uniti si tratta di rimettere piede nel Golfo, dopo i disastri irakeni, lo schiaffo egiziano e il voltafaccia saudita. Oggi tutti dicono che l’accordo di domenica è stato preparato pazientemente e da lunga data. Ma quanto lunga data? Non si tratta qui di fare della dietrologia, ma di porsi una domanda tutto sommato banale: è possibile che, nell’amministrazione Bush, nessuno sapesse che intervenendo in Afghanistan e in Irak, si eliminavano di colpo due regimi ostili e limitrofi all’Iran?

In ragione di circostanze particolarmente avverse, può essere sfuggito a molti, per anni, da una parte e dall’altra, che gli Stati Uniti e l’Iran (e Israele) sono degli alleati geopoliticamente “naturali” in Medio Oriente; ma l’annebbiamento ideologico doveva essere totale se ha impedito di vedere che, cacciando i talebani da Kabul e Saddam Hussein da Baghdad, Teheran ne avrebbe tratto un immediato duplice profitto.

Intanto, dopo i sorrisi e le pacche sulle spalle di Ginevra, l’Iran potrebbe anche liberarsi della zavorra di Assad senza nemmeno perderci la faccia. Ma si sa dove portano i sentieri lastricati di buone intenzioni: senza la Russia, nessun accordo è possibile; la Francia ha già segnalato il suo scontento; la Cina c’è, ma non si vede.

E soprattutto ci sono, e si vedono, l’Arabia Saudita e Israele. Gli sceicchi di Riyad potrebbero essere i gran perdenti, anche se tutti hanno interesse a non umiliarli troppo. A Gerusalemme, invece, stanno imparando a parlare la lingua del Medio Oriente: dove tutti, da anni, urlano improperi contro i loro amici, e sorridono soavi ai loro nemici.

 

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Manlio Graziano

Manlio Graziano

Insegno geopolitica e geopolitica delle religioni alla Sorbona e all’American Graduate School in Paris. Ho scritto In Rome we Trust. Cattolici e vita politica americana (Il Mulino, 2016), Guerra santa e santa alleanza. Religioni e disordine internazionale nel XXI secolo (Il Mulino, 2015; ed. inglese Columbia University Press, 2016); The Failure of Italian Nationhood (Palgrave-MacMillan 2010, anche in francese e italiano); Identité catholique et identité italienne (L’Harmattan, Parigi, 2007); Il secolo cattolico. La strategia geopolitica della Chiesa (Laterza, Roma, 2010) e Essential Geopolitics: A Handbook (eBook Amazon, 2011). Collaboro con Limes, rivista italiana di geopolitica.

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