La politica, e la politica internazionale soprattutto, non è mai fatta di colori netti e precisi, ma sempre di sfumature; spesso, di ombre, dietro le quali è difficile orientarsi. L’Iran di Hassan Rouhani è una di queste.
Agli spiriti irrequieti – che paventano una guerra ad ogni alzata di sopracciglio e che sono pronti a scommettere sulla pace perpetua ad ogni abbozzo di sorriso – diremo subito che anche l’Iran di Mahmoud Ahmadinejad era in una zona d’ombra fitta, e che ci vorrà ancora molto tempo prima di sapere che cosa è veramente successo a Teheran in questi ultimi quattro anni.
Ma il fatto che la realtà sia difficile da cogliere nella sua interezza non ci impedisce di tentare di capirne alcune parti, cominciando da ciò che è noto, e da lì formulare alcune ipotesi.
Sull’Iran abbiamo alcune certezze storiche e geopolitiche che possono servirci da punto di partenza. Il peso della tradizione, innanzitutto.
L’Iran è la culla di tutte le popolazioni indoeuropee: dall’Irlanda al Bengala, le lingue che parliamo sono tutte debitrici di una popolazione che, dalle pendici del Caucaso si è incamminata seimila anni fa verso oriente e verso occidente, portando, letteralmente, il proprio verbo.
Ma, soprattutto, la Persia è, con la Cina, l’unico paese che può vantare una storia di potenza millenaria. Certo, ha subito (come la Cina) storiche sconfitte (i greci, gli arabi, i mongoli), ma si è sempre ripresa, ed è tornata grande, a volte trasformando i propri vincitori, come la Grecia, dice Orazio, aveva fatto con Roma. Secondo certuni, la Persia «artes intulit» al rustico islam con la dinastia abbaside, dopo il 750; e lo stesso fece la dinastia safavide con il rustico sciismo, dopo il 1501.
Tutte le volte che si parla d’Iran, bisogna tener conto di questi antecedenti. Paradossi della storia: se esiste una comprovata continuità, più sono lontani, questi antecedenti, e più sono importanti. Danno, a chi li può vantare, un senso di profondità storica che non può essere intaccato dalle minacce, fantastiche o reali, di paesi che hanno “solo” qualche secolo di storia, o addirittura, come nel caso di Israele, qualche decennio appena.
Se avviciniamo la lente, ci rendiamo conto che, fino al 1979, gli Stati Uniti potevano contare in Medio Oriente sull’alleanza di tre paesi, a loro volta alleati tra loro: Turchia, Israele e, appunto, Iran – i tre paesi non arabi della regione. Il senso di superiorità che turchi, israeliani e persiani nutrono nei confronti dei loro vicini è una di quelle costanti geopolitiche che vanno al di là delle contingenze: gli ayatollah possono passare, ma la persianità resta. Ma anche con gli ayatollah, Israele ha aiutato l’Iran nella sua guerra contro l’Irak (1980-1988). E le sceneggiate antisraeliane di Erdoğan devono intendersi rivolte più a Washington che a Tel Aviv, della cui amicizia Istanbul non ha ragione di voler fare a meno, soprattutto ai chiari di luna siriani.
L’Iran ha un obiettivo costante: tornare a sedersi alla tavola dei grandi. Una delle motivazioni della

Il Segretario di Stato John Kerry con il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif durante il loro recente incontro alle Nazioni Unite
rivoluzione del 1979 era proprio il sentimento di umiliazione nazionale per lo stato di sudditanza nei confronti degli Stati Uniti cui lo scià aveva ridotto il paese. Khomeini aveva cercato di rilanciare la gloria della Persia attraverso il sogno di un’internazionale musulmana trionfante; un sogno che ha inevitabilmente portato l’Iran in rotta di collisione con l’Arabia Saudita, i suoi petrodollari, e i suoi guerriglieri afghani (e l’ostilità di Riyad pesa oggi sull’atteggiamento americano quanto, se non di più, dell’ostilità d’Israele).
Dopo la scomparsa di Khomeini, la macchina si è rotta. Il ruolo di “guida suprema” se l’era tagliato su misura, un po’ come de Gaulle con la Quinta Repubblica. Morto lui, nessuno dei suoi successori è stato all’altezza. Affermare che la “guida suprema” è l’unico abilitato a parlare in nome della legge divina è una convenzione che funziona soltanto finché tutti sono disposti a credervi, non il contrario.
Dire che l’Iran è diviso da una lotta di interessi contrapposti è una banalità. Oggi però sembra che questo scontro si stia avviando alla resa dei conti. Ai tempi di Ahmadinejad, un’accoglienza come quella riservata a Rouhani di ritorno da New York non sarebbe stata immaginabile: folle festanti da una parte, e contestatori infuriati dall’altra. La linea di faglia di questo scontro potrebbe essere non il nucleare, ma la Siria.
Ahmadinejad aveva ridotto l’internazionale sognata da Khomeini a una combriccola ristretta, formata da Assad, Hezbollah e Hamas: pochi amici e d’infima reputazione. Le guerre in Afghanistan (2001) e in Irak (2003) avevano spianato la strada ad un ritorno alla grande dell’Iran sulla scena internazionale, ma quell’occasione è stata gettata al vento (complice anche l’autismo dell’amministrazione Bush). Rouhani potrebbe ricominciare da lì; e l’intensificarsi del caos terrorista in Irak e in Pakistan starebbe a dimostrarlo.
Il nucleare, di cui parleremo un’altra volta, c’entra poco. C’entrano molto, invece, gli Stati Uniti. John Kerry, e la sua capacità o meno di stabilire un linkage tra dialogo isrealo-palestinese, accordo con la Russia sulle armi in Siria, e garanzie sui flussi energetici, può rivelarsi più decisivo, per gli equilibri interni iraniani, di Ali Khamenei, guida suprema, e interprete della legge divina sulla Terra.