Le vicende dell’ultimo decennio parlano chiaro. C’è un nuovo mondo che si è formato. Un mondo che non ha bisogno del suo gendarme. Altro che fine della storia, come direbbe Francis Fukuyama. Per un po’ ci siamo tutti illusi che, con la vittoria della guerra fredda, fosse arrivato il tempo del sistema unipolare, dell’unica grande potenza. Illuminata, infallibile, ricca, incaricata di un mandato non scritto. Politico e umanitario. Legittimato dal successo di un modello, quello dell’economia di mercato e del liberalismo occidentale. Il Kosovo aveva forse ancora illuso sulla capacità americana di creare consenso rispetto alla leadership “efficace”. Eppure quell’intervento umanitario, nobile e doverso, a pensarci bene, andava letto come appendice e coda finale della guerra fredda. Dove l’efficacia dell’“Impero” poteva essere ottenuta nel più semplice panorama di un mondo in transizione che ancora non conosceva i nuovi attori del sistema internazionale.
Poi sono arrivate la guerra in Afghanistan (2001) e quella in Iraq (2003) ad indicare i molti dei limiti della potenza americana. L’incapacità di condurre, da sola o con l’assistenza alleata, una stabilizzazione rapida dei teatri di crisi. Per anni, con ironia e cinismo, a proposito dell’Afghanistan, si è parlato del sindaco di Kabul come unico successo nella ricostruzione del Paese. Certo, l’Afghanistan è uscito dall’oscurantismo terrorista talebano grazie all’America. Ma proprio gli odiati talebani, quelli apparentemente più moderati, sono diventati da tempo elemento essenziale per la riconciliazione del Paese. E poi l’Iraq, con quell’avventata opera di distruzione del regime laico baathista. Una follia, ancora oggi causa di una guerra tra sette e fazioni che non smette di seminare morti.
Afghanistan e Iraq dunque: non si è mai riflettuto abbastanza sul fatto che in entrambi i Paesi gli Stati Uniti abbiano avuto bisogno di quelle Nazioni Unite ripetutamente umiliate da George W. Bush e dal suo ambasciatore neo-con all’ONU John Bolton. Nel primo caso una missione ONU è stata necessaria per consolidare i progressi ottenuti e cercare di allargare le basi sociali del nuovo regime post-talebano; nel secondo, la United Nations Assitance Mission in Iraq (UNAMI), è servita fin qui per rimediare a più evidenti errori e dare leggitimità ex-post ad un intervento che aveva creato una frattura profonda nella comunità internazionale. Ed in quella atlantica. In pochi anni, l’Iran sciita ha accresciuto a dismisura la sua influenza in Medio Oriente, introducendo la realtà di un nuovo protagonista in un’area centrale degli equilibri del pianeta.
Nel frattempo, nel mondo, avanzavano nuove potenze. La Cina e l’India su tutte, il Brasile, ma più ingenerale economie emergenti in Asia resistevano alle crisi cicliche del capitalismo globale consolidando forme forme neo-autoritarie di organizzazione politica, dove l’economia di mercato regolata si fonda su una mano pubblica potente e su sistemi tendenzialmente monopartitici. Modelli assai diversi da quelli auspicati a Washington. Un mondo diverso da quello immaginato. In cui l’Europa, con fatica, cerca di superare la propria condizione di nano politico.
Il grande moto della primavera araba è forse l’esempio più evidente della fine dell’Impero. Rivoluzioni popolari inter-classiste – con l’appoggio morale degli Stati Uniti – e con scarsa connotazione religiosa hanno rimosso uomini forti e regimi autoritari. Internet, una vasta domanda di partecipazione e di libertà economiche e politiche hanno sussurrato un’inattesa speranza di democrazia in realtà dominate da dinastie corrotte – Mubarak, Ben Ali, Gheddafi – sostenute dall’occidente come garanzia di sicurezza. La primavera araba è sembrata per un po’ il trionfo del modello occidentale. Quei regimi son crollati, ma in Tunisia ed Egitto hanno liberato forze radicali e fondamentaliste. Apparentemente le più attrezzate per gestire la nuova fase. Ma già in crisi a distanza di pochi mesi dalla presa del potere.
Quel che è accaduto nella primavera araba è l’eterogenesi dei fini. Nel caso dell’Egitto, l’impotenza americana sconvolge chi ancora crede o credeva al poliziotto del mondo. Proposte politiche neo-islamiste hanno soffocato il disegno democratico delle rivoluzioni civili. Riportando l’orologio politico del quadrante mediorientale al paradigma della sicurezza affidata all’esercito ed alla forza di un regime armato. In Egitto, l’America è ora impopolare presso i militari perchè ha tollerato Morsi. Presso i fratelli islamici perchè non ha denunciato il colpo di stato. Presso i laci perchè si è mostrata debole con il fondamentalismo religioso.
Ed ora c’è la Siria e il dibattito sulla linea rossa. L’uso delle armi chimiche come chiamata alle armi per un’azione militare unilaterale. L’opzione più complicata, ma non l’unica, per onorare il principio della responsabilità di proteggere le popolazioni civili. Il rischio, forte, di un fiammifero buttato nella più complessa polveriera mediorientale. Dove c’è l’Iran, paese nucleare. E la nuova Russia di Putin, non certo quella in decadenza dei tempi del Kosovo. Assieme ad un intrecciarsi di conflitti religiosi, etnici e politici assai difficili da dipanare.
Tutto questo basta a farci sembrare le relazioni internazionali del 2013 un poco più complesse di quelle di una volta. Un’azione militare solitaria degli Stati Uniti sarebbe cieca e sorda. E sarà un dispiacere per molti – anche per noi – vedere Barack Obama assumerne la guida. Ma se non sarà lui ad abbandonarsi ad uno scatto d’ira e d’orgoglio dai tratti irrazionali, sarà domani il suo successore. Il mondo sembra aver capito invece che serve un direttorio condiviso. Un governo multipolare delle relazioni internazionali. E lo ha capito, forse, con quel digiuno inter-religioso invocato da papa Francesco, grossolonamente irriso dai machismi retorici di Henry Bernard Levy e del suo pingue epigono nostrano, Giuliano Ferrara. Il mondo sembra pronto ad un altro mondo. L’America non ancora (E neanche quelli che si sentono più americani degli americani).