In occasione del loro summit annuale, i paesi del G-8 hanno ufficialmente assunto l’impegno a lottare contro l’evasione fiscale, promuovere la crescita e lo sviluppo, e combattere la disoccupazione. Era davvero necessario riunire otto capi di Stato e di governo, ridispiegare l’esercito di Sua Maestà in Irlanda del Nord, creare una vasta zona di esclusione, mobilitare 600 giornalisti e inscenare le solite gazzarre antimondialiste per sentire delle banalità cui siamo abituati da almeno cinquant’anni?
In realtà, la grande idea del summit era discutere della questione siriana. Che si è rivelata avventata, al limite dell’autolesionismo: l’unico risultato è stato infatti di ingigantire sproporzionatamente la forza della Russia, permettendo a Putin di tenere in scacco per quattro giorni i suoi sette colleghi. Quando fu ammessa al G-7 (diventato così G-8) per compensarla della perdita del suo impero, la Russia era il parente povero dei grandi del pianeta. L’impressione che si è avuta dal vertice appena concluso è che, oggi, le parti si siano invertite.
Naturalmente è solo un’impressione. La Russia tiene in scacco gli altri nella misura in cui gli altri glielo permettono. Di fatto, Putin non può prendere decisioni in nome di Assad, e gli altri sette non possono prendere decisioni in nome degli oppositori di Assad. In Siria – oltre agli attori locali – niente può essere deciso senza sentire il parere della Cina (e della Turchia, del Qatar, dell’Arabia Saudita, e naturalmente dell’Iran, solo per citare i più importanti).
Ma ciò che vale per la Siria, vale anche per le altre grandi questioni del pianeta. Il G-8 può essere un’occasione di incontro e di consultazione (benché ridondante), ma non è più in grado di decidere alcunché.
Quando fu creato, nel 1975, il G-5 rispecchiava rapporti di forza reali. Eccezion fatta per l’URSS, esclusa per ragioni politiche, i paesi membri erano effettivamente le prime cinque potenze economiche mondiali. L’Italia, che fece le bizze per entrare nel “club dei grandi”, era la sesta. Il Canada, che fu aggiunto per controbilanciare l’Italia, la settima. Oggi, tra i primi sette, sono entrati la Cina e il Brasile, e sono usciti proprio Italia e Canada; la Russia è l’ottava, ma insidiata dappresso dall’India. Gli Stati Uniti, il Giappone e gli europei sono in declino, e comunque in stato di avanzata confusione strategica. Il mondo, insomma, è un altro.
Nel 1975, la nascita del G-5 sanzionava il tramonto dell’egemonia americana. Per Henry Kissinger, già alla fine degli anni Sessanta «l’era del quasi totale dominio del mondo da parte degli Stati Uniti si stava chiudendo» (Diplomacy, p. 703). Poi vennero la fine della convertibilità dollaro/oro (1971), la crisi petrolifera (1973), la grande recessione (1974) e la sconfitta in Vietnam (1973-1975). Il Giappone e la Germania non erano più gli sconfitti della guerra, ma la seconda e la terza potenza economica mondiale.
Così, Francia, Regno Unito, Giappone e Germania tesero una soccorrevole mano agli Stati Uniti, che non ce la facevano più da soli. E al tempo stesso li affiancarono in una specie di “direttorio” mondiale. Era la nascita del mondo multipolare.
Nel 1999, l’anno in cui Bill Clinton e Zhu Rongji si accordarono sull’ingresso della Cina nel WTO, fu creato, ufficialmente, il G-20. Il nuovo organismo ebbe un’esistenza poco più che teorica fino al 2008 quando, di fronte all’esplosione della crisi, fu convocato in fretta e furia il primo vertice dei capi di Stato e di governo. Era il segno che i cinque del 1975 – i “colpevoli” della crisi – non erano più in grado di farcela da soli.
Oggi, a parte un paio di eccezioni (Argentina e Africa del Sud dentro, Spagna e Svizzera fuori) i paesi del G-20 occupano in effetti le prime posizioni della classifica delle potenze economiche. Quest’incontro annuale rappresenta la sola occasione in cui i leader che contano davvero possono trovarsi e parlarsi tra loro (compresi gli otto, che si risparmierebbero un inutile doppione).
Molti pensano tuttavia che il G-20 sia un organismo pletorico, cacofonico e dunque inefficace: ognuno si preoccupa innanzitutto del proprio interesse nazionale; e inoltre, una serie di organismi internazionali e di associazioni regionali ancora più pletorica (sul solo continente americano ve ne sono quattordici) si affianca al G-20, e spesso lo contraddice.
Alcuni – soprattutto dopo l’incontro tra Barack Obama e Xi Jinping a Sunnylands – ritengono che la soluzione più efficace e meno ipocrita sarebbe quella di un G-2, in cui Cina e Stati Uniti la facessero finita con le loro rivalità e prendessero in mano insieme le sorti del mondo.
Altri infine fanno notare che l’idea secondo cui due, otto o venti potenze possano mettersi d’accordo tra di loro per governare il mondo è, oltre che ingenua, molto recente: figlia, in ultima instanza, del massacro della Seconda Guerra mondiale, da cui gli Stati Uniti emersero come unica potenza mondiale. E ci ricordano che la politica internazionale è rientrata oggi nella sua, chiamiamola così, normalità anarchica, in cui, fuori da ogni ipocrisia, tutti sono contro tutti. I destini del mondo, insomma, sono di nuovo in mano al G-Zero.