Il Bilan du Monde 2013, lo speciale atlas su 180 paesi che il più autorevole quotidiano parigino ha appena messo in circolazione, traccia il quadro complessivo delle condizioni economiche del pianeta. In particolare, le quasi duecento pagine organizzate da Le Monde, fanno capire dove stia sboccando la lunga transizione iniziata a fine Novanta. Alcuni dati meritano riflessione, sottolineando tendenze di struttura che incideranno drammaticamente sul nostro futuro prossimo.
Quando si ragiona di competitività, si guarda sempre al costo orario in dollari US della mano d’opera. Riferendosi all’industria manifatturiera in Europa e Americhe, nel 2010, il costo massimo si registra in Norvegia con 57,5. Gli Stati Uniti sono a 34,7 e l’Italia a 33,4. I paesi più industrializzati europei, ad eccezione dell’Italia (ma occorrerebbe capire quanto incidano i costi sociali e fiscali) risultano sopra quota 40: Germania Belgio Danimarca Svezia sono tra 43,7 e 50,7. la Francia a 40,5. In America latina l’Argentina è a 12,5 il Brasile a 10, il Messico a 6,2. I dati, calcolati dal Bureau of Labor Statistics, non alimentano ottimismo sulla competitività industriale europea, almeno dal lato del fattore costo del lavoro.
Il debito mondiale, in percentuale sul prodotto interno lordo globale, diminuisce tra il 1950 e il 1980 dal 116% al 50% circa (superati i costi dell’immediato dopoguerra, la ripresa traina per tre decenni la diminuzione dell’indebitamento pubblico). Dagli anni ‘80 la sua evoluzione si frastaglia: mentre sino ad oggi oscilla complessivamente tra il 60 e l’80% e da qui al 2017 è previsto in calo, nelle economie avanzate inizia il percorso che per ora lo colloca appena sotto il 100% e lo condanna entro il 2017 a superarlo (nel G7 si arrampicherebbe al 120%), nelle emergenti scende a 40% nel 2010 e punta a dimezzarsi entro il 2017. I dati, forniti dal Fondo monetario internazionale, evidenziano la cattiva salute finanziaria delle economie mature, peraltro incapaci, con la recentissima eccezione degli Stati Uniti, di dare prospettive vincenti alla loro spesa pubblica.
I dati sui primi cinque paesi per numero e percentuale di laureati, fascia di età tra 25 e 34 anni, raccontano un drastico rimescolamento. Gli Stati Uniti all’inizio dello scorso decennio erano al primo posto; lo perdono all’inizio del presente decennio cedendolo alla Cina. Andrà anche peggio all’inizio del prossimo decennio, per lo scavalco dell’India, che nel 2000 compariva solo in quinta posizione. La Russia in vent’anni scivola dal terzo al quarto posto; il Giappone dal quarto al quinto tra il 2000 e il 2010, per poi scomparire, lasciando il posto all’Indonesia. La classifica al 2020 si presenterebbe così: Cina (58,3 milioni di laureati, pari al 28,5% della popolazione tra 25 e 34 anni), India (23,8 milioni e 11,6%), Stati Uniti (22,2 milioni e 19%), Russia (14,1 milioni e 6,9%), Indonesia (11,2 milioni e 5,5%). Il dato, di fonte Ocse, spiega le radici del rising del Pacifico e del contestuale declino europeo e in genere occidentale nel XXI secolo. L’abbandono di studio e cultura, generalizzato nel vecchio continente, è drammatico nel suo meridione: si tratta di un suicidio generazionale, soprattutto se si pensa che troppi dei pochi laureati emigreranno verso mercati che sapranno meglio apprezzarli e gratificarli.
Le tre situazioni richiamate convergono nel suggerire agli stati europei di far decrescere il loro costo finanziario, liberando risorse per le famiglie e le imprese. Parte di queste risorse dovranno contribuire alla formazione superiore dei ragazzi europei. Il consiglio riguarda in particolare i paesi a maggioranza cattolica, che nei casi citati compaiono sempre in posizione di retroguardia.
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