A più di due anni dalla cacciata di Mubarak in Egitto e dallo scoppio dell’insorgenza armata in Siria contro il regime di Bashar el Assad, mentre il ritiro statunitense dall’Iraq e il previsto possesso iraniano dell’ordigno nucleare propongono nuovi rischi al suo confine meridionale, il Medio Oriente appare tutt’altro che stabilizzato. A soffrire della situazione è in particolare l’area europea, la più vicina e la più dipendente dalle risorse energetiche della regione. Tanto più che in Europa vivono più di 45 milioni di musulmani immigrati dai paesi arabi, che diverranno alla fine del prossimo decennio quasi 60, l’8% della popolazione totale dell’Ue. Da rilevare che circa il 42% di loro avrà un’età, sotto i 30, dal probabile impatto sociale, religioso e politico.
Al confronto con situazioni che dovrebbero spingere l’Ue a scelte, in chiave regionale, politiche e di sicurezza, le istituzioni insistono con vuote dichiarazioni di principio, e l’invio di aiuti umanitari sui teatri di crisi. A spostare i leader europei dall’inanità non soccorrono neppure le cifre raccapriccianti delle vittime delle violenze e guerre. In Irak da marzo 2003 a dicembre 2011 si sono contate 117.000 uccisioni. In Siria da marzo 2011 a marzo 2013, 60.000. Ma in Siria il conflitto ha fatto 2.500 morti al mese mentre in Irak 1.114. Nemmeno le guerre nella ex Jugoslavia, tra marzo 1991 e novembre 1995, tra febbraio 1998 e giugno 1999, hanno espresso un tasso così elevato di mortalità: nonostante le 140.000 uccisioni, si sono avute 1.972 vittime al mese.
Non stupisce che di fronte all’impotenza di un’Europa ripiegata nella propria crisi finanziaria e sociale, il Medio Oriente e il mondo arabo mediterraneo manifestino disappunto. Scrive Benoit Vitkine nella dettagliata pubblicazione che Le Monde ha appena dedicato alla situazione geostrategica mondiale: “Abbiamo creduto che i nuovi poteri nati nei paesi delle ‘primavere arabe’, avrebbero guardato a un modello democratico vicino agli standard europei. Su questo capitolo, il 2012 ha marcato una disillusione… Neppure la Turchia si batte più per l’adesione all’Ue…”. E Vivien Pertusot, responsabile d’Ifri Bruxelles: “La Ue corre oggi il rischio di non potersi più appoggiare sul suo soft power; e proprio nel momento in cui il suo hard power sta divenendo un miraggio”. Tuttora il 48% del campione di 22 paesi che la BBC intervista in primavera, giudica positivamente l’Ue, ma questa sembra fare di tutto per dilapidare il suo capitale di fiducia.
Certo è che resta poco tempo ai paesi membri per decidere cosa vogliono fare delle responsabilità verso la pace e lo sviluppo mediterraneo e mediorientale. Né la politica “globale” degli anni ’80, né le politiche di cooperazione varate con la carta di Barcellona negli anni ’90, né la velleitaria Unione per il Mediterraneo imposta da Sarkozy durante la presidenza francese del Consiglio europeo hanno dato soluzioni credibili ed efficaci. Manca evidentemente la volontà politica, magari perché si teme di scontentare Israele. Ma se l’Ue avesse fatto per il Mediterraneo la metà di quello che ha fatto per le nuove democrazie post comuniste, oggi vi sarebbe pace e sviluppo nel suo sud e forse sarebbe stato risolto anche il conflitto israelo-palestinese.
Faccia attenzione l’Europa. Dal prossimo decennio la sua politica mediorientale, e più in generale verso il mondo islamico ed arabo, passerà anche per vie interne. Visto l’andamento demografico, con il peso che tendono ad avere le giovani generazioni arabe e islamiche nel vecchio continente, il rapporto euro-arabo costituirà un issue di politica interna, non più solo di politica estera.