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La verità di Mario Mori: “Accusato di trattare coi mafiosi, scrivo per vendicarmi”

L'ex generale dei carabinieri racconta la sua lotta a Cosa Nostra. E il ruolo opaco di certa imprenditoria...

Antonio CarluccibyAntonio Carlucci
La verità di Mario Mori: “Accusato di trattare coi mafiosi, scrivo per vendicarmi”

Mario Mori (ph: ANSA)

Time: 7 mins read

Mario Mori, generale di divisione dei carabinieri e prefetto, oggi in pensione, nella sua vita professionale ha lavorato nell’intelligence, ha indagato e perseguito il terrorismo delle Brigate Rosse, ha combattuto la mafia di Cosa Nostra raggiungendo risultati come l’arresto del capo dei capi Totò Riina, ha comandato a fine carriera il servizio segreto interno italiano che all’inizio del Ventunesimo secolo si chiamava Sisde.

Ma ha avuto anche un’altra esperienza. È finito per tre volte sotto accusa proprio per il lavoro che ha fatto. Prima lo hanno accusato di aver favorito il capo di Cosa Nostra, latitante per 30 anni, non perquisendo l’appartamento nel quale di nascondeva. Poi lo hanno accusato di aver favorito la latitanza di un altro capo mafia, Bernardo Provenzano. Infine, è stato additato come il protagonista di un trattativa con Cosa Nostra secondo la quale in cambio della fine degli attentati mafiosi (Roma, Firenze, Milano nel 1992 e 1993) si sarebbe adoperato per addolcire il carcere duro riservato ai mafiosi.

Ci sono voluti quasi 20 anni di processi ma alla fine ne è uscito a testa alta. Assolto pienamente da ogni accusa. Mori, che ha riversato le sue esperienze di investigatore in due libri (M.M., Nome in codice Unico e La verità sul Dossier Mafia Appalti) racconta le sue esperienze a La Voce di New York.

 

Oggi che i processi si sono tutti conclusi con una piena assoluzione, come spiega quanto le è accaduto?

Quando ho cominciato il lavoro alla fine degli Ottanta a Palermo come comandante del Gruppo Carabinieri, non avevo valutato bene la situazione nella quale operavo. Io, e come me gli altri carabinieri del Gruppo 1 e poi del Ros, ritenevamo che fare il carabiniere a Palermo fosse come farlo a Milano, a Genova, ad Ancona ed invece non era per nulla così. Ci siamo accorti, giorno dopo giorno, che esisteva un limite alla possibilità di fare indagini.

In che senso?

C’era un muro costituito dal potere reale che non è quello della politica, bensì quello delle amicizie e delle relazioni di una fascia medio-alta della borghesia siciliana, un gruppo di persone non numeroso che fanno muro di fronte a qualsiasi interferenza esterna, che si aiutano a vicenda e che sono scesi a patti con il potere criminale della mafia. Non ci accorgemmo subito in quale realtà operavamo, pensavamo di fare normali indagini su singole persone, mentre invece avevamo di fronte un sistema compatto ed omogeneo.

Quando cominciò a intuire la situazione?

Eravamo partiti da una indagine in un paesino delle Madonie, nella provincia di Palermo, relativa a un omicidio mafioso. Venne fuori abbastanza presto che le motivazioni del delitto erano legate a una serie di appalti contesi da due soggetti ritenuti legati alla mafia. Man mano che  l’indagine prendeva corpo, ci trovammo davanti la figura del sindaco del paese, un ex prete che era professore di biologia marina all’università di Catania, che si barcamenava tra gli uomini d’onore del paese. E poi, un piccolo imprenditore titolare di una piccola società: non aveva grandi mezzi né strutture più grandi delle necessità di operare in un piccolo paese, però faceva parte di un consorzio di imprese insieme a una azienda di livello nazionale come la Tor di Valle il cui leader era il genero di un leader storico della Democrazia Cristiana come Alcide De Gasperi.

Era così strana questa relazione?

Non aveva spiegazione che un imprenditore di un piccolo paese i cui mezzi erano poco più che un furgone e una impastatrice fosse associato a una azienda di livello nazionale. Continuammo a indagare e spuntò un certo Angelo Siino, altro imprenditore siciliano. Dall’ascolto dei suoi telefoni si capì immediatamente che era il punto di contatto tra vari imprenditori dell’Isola e Cosa Nostra, oltre ad avere come soci noti mafiosi.

Come arrivò la conferma di questo patto?

Accadde che la Tor di Valle perse un appalto che riteneva già in tasca. Si agitarono molto, mandarono i loro uomini a Palermo e da una conversazione venne fuori che i siciliani dissero ai romani di stare buoni altrimenti sarebbe venuto giù tutto. Capimmo allora che c’era un vero e proprio sistema che regolava gli appalti fuori da qualsiasi  legge o regolamento quando l’inviato della Tor di Valle tornò in azienda e riferì. I suoi capi non gridarono all’illecito, chiesero soltanto: “Ma siamo sicuri che manterranno le promesse?”

Di fronte a questo quadro, quali furono  le vostre scelte investigative?

Informammo la magistratura di Palermo. Il giudice Giovanni Falcone ci chiese di mettere subito tutto nero su bianco, noi pensavamo che sarebbe stato meglio andare avanti ancora un po’ ma Falcone voleva a tutti i costi un primo rapporto perché aveva intuito che tipo di scenario aveva davanti. Così, a febbraio del 1991, prese forma il primo rapporto “Mafia e Appalti”, lo  consegnammo a Falcone e lui lo portò al procuratore capo Pietro Giammanco.

E che cosa accadde?

Nulla, assolutamente nulla. Passarono uno, due tre mesi senza un solo riscontro dalla procura. Poi alcuni quotidiani pubblicarono la notizia del rapporto “Mafia e Appalti” e la procura fece una serie di arresti, ma lasciando fuori gli imprenditori nazionali e, ancora peggio, non usando gli omissis negli ordini di arresto. Nel giro di poche ore, tutti sapevano tutto. E quando mesi dopo alcuni degli arrestati cominciarono a parlare, capimmo che i mafiosi e i politici, a cominciare da Totò Riina e Salvo Lima, erano al corrente della nostra indagine sin dall’inizio. Da questo momento in poi i rapporti con la procura di Giammanco divennero tesi e cominciò un conflitto che non si è mai ricomposto.

L’arresto di Totò Riina a Palermo, 15 gennaio 1993 (ph: ANSA)

In quei mesi prese corpo anche l’operazione che porto all’arresto del capo mafia Riina nel febbraio del 1993…

Un gruppo di carabinieri cominciò la ricerca dei latitanti e Riina era al primo posto nella lista. E di Mafia e Appalti non sentimmo quasi più parlare, poi accadde anche che nella primavera del 1991 Giovanni Falcone aveva lasciato Palermo per andare a lavorare a Roma al ministero della Giustizia stanco anche degli ostacoli che mettevano al suo lavoro.

Che accadde dopo l’uccisione di Falcone nel maggio del 1992?

A Palermo arrivò da Trapani il giudice Paolo Borsellino che era stato messo al corrente da Falcone di Mafia e Appalti. Chiese al procuratore di occuparsene ma ricevette una delega minore, non poteva occuparsi dell’area di Palermo che era di competenza di Giammanco e dei sostituti Giuseppe Pignatone e Guido Lo Forte. Borsellino si mise comunque al lavoro e il 1° luglio 1992 interrogò a Roma un certo Leonardo Messina che gli disse che una grande società come la Calcestruzzi di Raul Gardini aveva come socio al 50 per Nino Buscemi, un imprenditore mafioso di Palermo e fratello del capo mafia di Passo di Rigano. In pratica Borsellino ricevette la conferma di quanto aveva detto Falcone leggendo il nostro primo rapporto: “La mafia è arrivata in Borsa, a Piazza Affari”. Subito dopo, il 12 luglio il procuratore di Palermo decise di fare di Mafia e Appalti uno spezzatino. La divise in tanti piccoli fascicoli inviandoli a ciascuna della procure siciliane e togliendo così la visione di insieme di fenomeno criminale complessivo e unitario. Era un modo per dire che lui non credeva all’esistenza di un sistema corruttivo organico.

La situazione precipitò e poche settimane, il 19 luglio 1992, dopo anche Borsellino fu assassinato con un autobomba. Che cosa accadde a “Mafia e Appalti”?

Il 13 luglio i sostituti procuratori Lo Forte e Scarpinato chiedono al procuratore Giammanco di archiviare la parte di loro competenza. Il giorno successivo, a una riunione in procura per i saluti pre vacanze Borsellino chiese ai colleghi che cosa si stesse facendo per gli altri tronconi di Mafia e Appalti. Secondo i racconti di alcuni dei presenti il clima si fece incandescente e nessuno, né Giammanco né Lo Forte presenti all’incontro dissero una parola sulla richiesta di archiviazione del giorno precedente. Un magistrato raccontò poi che Borsellino andando via disse a Giammanco e al sostituto Pignatone “voi non me la raccontate giusta su Mafia e Appalti”. Il 19 luglio l’autobomba uccise Borsellino. E quella stessa mattina, intorno alle 7, il magistrato ricevette, secondo le parole della moglie, una telefonata da Giammanco che gli annunciò l’intenzione di dargli la delega per le indagini su Palermo. E il 22, tre giorni dopo l’omicidio, il procuratore inviò al giudice per le indagini preliminari la richiesta formale di archiviare Mafia e Appalti che fu poi accolta il 14 agosto successivo.

A quel punto come erano i rapporti con la procura di Palermo?

Di grande tensione e totale incomprensione. In ogni caso, decisi di informare della situazione alcuni uomini dello stato: ne parlai con Liliana Ferraro, magistrato che aveva preso il posto di Falcone al ministero della Giustizia, con Fernanda Contri, allora segretario generale del presidente del consiglio Giuliano Amato, e con l’onorevole Luciano Violante, a quel tempo presidente della Commissione parlamentare sulla mafia. Comunque, noi continuavamo il nostro lavoro, avevamo agganciato l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino che si mostrava disponibile a collaborare, ma non voleva aderire alle richieste della procura di dichiararsi un uomo di onore. Ci fece capire che poteva aiutarci a catturare Riina. Si disse pronto anche a fare l’infiltrato chiedendo in cambio di non andare in carcere, di stare in un luogo sicuro e di essere curato. Ma non raggiunse un accordo con i magistrati della procura. Noi intanto, riuscimmo comunque ad arrestare Totò Riina  (non con l’aiuto di Ciancimino, NdR) a gennaio del 1993 e continuammo a seguire il filo di Mafia e Appalti facendo aprire un’inchiesta a Catania e, tempo dopo, replicando lo stesso schema investigativo a Napoli dove ci fu una aperta e leale collaborazione con la locale procura della Repubblica.

I magistrati Giovanni Falcone (d) e Paolo Borsellino del pool antimafia, entrambi uccisi in un attentato di mafia ARCHIVIO / ANSA/GIOSUE’ MANIACI-COC

Con l’arresto di Totò Riina cominciarono i guai per lei, per il capitano De Caprio, per il capitano De Donno e per altri suoi collaboratori. Prima un inchiesta contro di voi per non aver perquisito la casa da cui era uscito Riina prima dell’arresto, poi un processo per aver favorito la latitanza dell’altro grande capo di Cosa Nostra Bernardo Provenzano, infine l’inchiesta e il processo per la cosiddetta trattativa, teorema che voleva lei al centro di uno scambio tra mafia e stato per far finire la stagione delle stragi in seguito alle bombe di Roma, Firenze e Milano.

È probabile che sottovalutai le polemiche – e l’inchiesta – sulla mancata perquisizione. Ma si concluse abbastanza velocemente con un nulla di fatto per ben due volte perché quella scelta fu fatta insieme alla procura che era guidata da Giancarlo Caselli. Finimmo sotto processo e la sentenza fu chiarissima: era stata la procura ad autorizzare il ritardo della perquisizione. Con quella sentenza pensai che  la storia fosse finita e invece cominciò un calvario che è durato 20 anni.

Ma furono le polemiche giornalistiche sulla mancata perquisizione a innescare gli eventi successivi?

Solo in parte perché c’è sempre un Giuda in queste storie. Che prese le sembianze del colonnello Michele Riccio, un carabiniere che sosteneva che io non avevo arrestato Provenzano mentre lui aveva un pentito che era pronto a consegnarcelo. E le sue parole trovarono sponda in alcuni magistrati della procura di Palermo, Antonio Ingroia e Nino Di Matteo. Finii di nuovo sotto processo e per 3 volte sono stato assolto con formula piena. Ma non era finita perché sempre la procura di Palermo mise in moto l’inchiesta su un presunta trattativa che io avrei condotto con Cosa Nostra per fermare le stragi e in cambio ci sarebbe stato un ammorbidimento del carcere duro per i mafiosi. Finimmo di nuovo davanti ai giudici: in prima istanza fui condannato a 12 anni, poi in appello e poi in Cassazione il teorema dell’accusa si sgonfiò totalmente e fui assolto pienamente da ogni accusa.

E adesso che cosa pensa di fare?

Cerco di mantenermi il più sano possibile e ho scritto due libri, uno sulla mia storia professionale, da giovane tenente dei carabinieri fino a direttore del servizio segreto interno (Sisde, NdR), l’altro su Mafia e Appalti. Voglio dedicare tutto il mio tempo per battermi per raccontare la mia storia. È la mia vendetta.

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Antonio Carlucci

Antonio Carlucci

Giornalista prima a Paese Sera, poi a Panorama, infine a L’Espresso, dove per 10 anni è stato il corrispondente da New York. Ha scritto reportage da tutti e cinque i continenti

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