“Cosa farei senza questo mondo”, recita una poesia di Samuel Beckett, premio Nobel 1969 per la letteratura. Stranamente vengono in mente questi versi mentre, in più parti d’Italia, genitori e parenti tutti, ugualmente disperati, inseguono il mistero irrisolto da anni della scomparsa dei congiunti, specialmente bambini.
Con la stessa ostinazione di sempre, il dolore lacerante, il sentimento oppressivo. Sono 62 mila in Italia le persone scomparse senza lasciare traccia, praticamente come se fosse diventata invisibile una città di medie dimensioni. Negli Stati Uniti sono 600.000 ogni anno le persone irreperibili, indipendentemente dall’età.
È Mauro Romano, bimbo scomparso nel 1977 all’età di 6 anni a Racale nel Salento e mai più ritrovato, lo sceicco Mohammed, 52 anni, figlio del magnate Khalaf al Abtoor, uno degli uomini più ricchi degli Emirati arabi uniti? La madre lo avrebbe riconosciuto con sicurezza da due cicatrici, sulla mano e sul sopracciglio, conseguenze del contatto con un ferro da stiro. Attende ora il test del Dna per dirimere i dubbi ma è fiduciosa, il suo istinto non può tradirla.
Fino a ieri, ci siamo chiesti tutti, non solo Piera Maggio, la madre, se fosse Denise Pipitone, scomparsa a 6 anni nel 2004 a Mazara del Vallo, quella Aleysia Rostova, apparsa alla Tv russa per raccontare la storia struggente, chissà se sincera o pilotata, di ragazza rapita da piccola e poi adottata da una famiglia locale. Una vicenda dissoltasi nel nulla, nonostante la pantomima del canale russo interessato a portarla per le lunghe, speculando sul dolore della famiglia, per lucrare un po’ di audience.

Però, in quel caso, a seguito dello stillicidio di notizie, tutti i media si sono per forza interessati della vicenda, dilungandosi nella ricerca di somiglianze tra la bimba scomparsa e la giovane, per carpirne ogni segreto. Di nuovo accesi i riflettori, è anche proseguito il dramma dei parenti. E il “gioco” crudele, una volta emersa l’incompatibilità del sangue (superfluo l’esame del dna), minaccia ora di ricominciare: è stato diffuso in Spagna un video di Tic Rok che ritrae un’altra ragazza, con i tratti così somiglianti.
Nella ricerca dei congiunti perduti, le tracce conducono in posti lontani dall’Italia e diversissimi da quelli della scomparsa: dalla Russia al Medio Oriente, alla Spagna. Sarebbero le destinazioni finali di percorsi tortuosi, l’esito di peripezie non comuni, ove, beninteso, non fosse avvenuto l’epilogo tragico, e più verosimile, delle storie.
Eppure a stupirci è ciò che emerge dalle ricostruzioni, il rivolgimento radicale che le storie individuali avrebbero subìto se davvero fossero loro gli scomparsi. Certo la sorpresa più inquietante è la lingua. Bambini pugliesi e siciliani parlerebbero solo il russo o l’arabo, non saprebbero esprimersi in altro modo. Forse non avrebbero alcuna memoria dei dialetti. È il più appariscente dei cambiamenti: il linguaggio. Ma non meno significativi sono gli altri segni. Principalmente il contesto sociale, l’ambiente culturale, i costumi, evidenti nelle parole, nei tratti, nell’abbigliamento stesso.

Quanto lungo sarebbe stato il percorso fatto da Mauro, bambino pugliese, per diventare, da grande, Mohammed, lo sceicco mussulmano ritratto con la lunga tunica bianca e il copricapo di seta? Quanto grandi devono essere stati il caso e gli accidenti perché Denise divenisse la giovane, aspirante attrice, presentatasi con sguardo smarrito e implorante sul primo canale russo a dire la sua storia?
Il dolore dei genitori che hanno perso un figlio in circostanze misteriose e mai chiarite è di quelli che neppure il tempo riesce a lenire. Anzi il silenzio sulla sorte dei congiunti e gli anni sempre uguali lo accrescono a dismisura fino a renderlo devastante. È un’angoscia senza limiti. La lacerazione più insopportabile è non sapere cosa è accaduto. Dilaniante il dilemma, che non trova mai soluzione, tra la morte, più probabile ma non certa, o l’essere ancora vivo. Impossibile l’elaborazione del lutto per mancanza dell’oggetto. La prospettiva del ritrovamento d’altra parte dovrebbe rallegrare, dare conforto, se – così avvolta da oscurità – non aggiungesse altra angoscia. Cosa è successo, come è sopravvissuto il proprio caro, chi è oggi il bimbo di allora?
Le immagini attuali, ecco, esibiscono la crudeltà che potrebbe accompagnare il destino umano esposto a certe vicissitudini, le più traumatiche ed ingiuste che possano capitare. Il possibile prezzo che ciascuno sarebbe costretto a pagare, nel suo peregrinare, quando l’esistenza sia stata traghettata in un altro mondo. Mettendo a repentaglio, a questo punto, la memoria e le radici. Quel bagaglio che ciascuno porta con sé, fatto di emozioni, ricordi, esperienze, improvvisamente perduto nelle peripezie affrontate.
Non basterebbe accertare il Dna per convincersi davvero di aver ritrovato un figlio, per dire che si tratti dello stesso soggetto che ha fatto con noi i primi passi. Né basterebbe ritrovarlo per svelare la verità: chi sia questa ragazza o ragazzo, in questo preciso momento. Ora che, a dargli il nome, a identificarlo, sembra essere tutto un altro mondo, un impasto di lingua, costumi, usanze, esperienze, a noi estraneo. È questa, non quella delle vecchie foto, la realtà che, a prima vista, ha preso il posto delle radici, si è sostituita al passato. La brutalità lo rende visibile a sé stesso, prima ancora che nella società. Possibile recuperare quella parte di cui forse non ha memoria?

Ecco dunque, forse pertinente, la verità dei versi di Samuel Beckett. Il poeta riflette sul senso dell’esistenza. Lo sappiamo, non è sempre un quadro confortante, anzi. È fatto pure di ombre. Ce ne sono tante e recano angustie. Però fanno parte del nostro vissuto, pur sempre danno corpo, accanto alla bellezza, alla vita che viviamo. La quale è preziosa ed unica anche per le oscurità che l’attraversano, perché è sempre la nostra. Chissà quale sia, per ciascuno, l’approdo dopo il viaggio, iniziato tanto tempo prima, tra bellezza e angoscia.
Il mistero di questa verità si riflette anche nelle storie degli scomparsi, in cui la trama è la ricerca del come e del perché. L’umanità è esposta a radicali cambiamenti, anche traumatici, involontari, sicuramente dolorosi. Non sappiamo cosa accadrà e cosa diverremo. Centrale è sempre la stessa domanda: chi sono io, cosa fa di me quel che sono. Non importa ora se i soggetti individuati abbiano una certa identità genetica. Non è questo il punto. Anche il genitore affamato di risposte è costretto ad un certo punto a chiedersi cosa definisca la soggettività, l’essere uomo o donna. Specie quando il tempo trascorre inesorabile.
Un’illuminazione sembrerebbe racchiusa nella frase: “Cosa farei mai senza questo mondo?”. Qual è il “mondo” di cui oggi non possono fare a meno Denise e Mauro, se ancora vivi? È difficile avere certezze, a parte la morte, e molte cose non ci rassicurano affatto, anzi ci angosciano. Eppure non possiamo non amare il mondo nel quale viviamo oggi, così com’è fatto, perché è il nostro. Vale anche per chi, scomparso, “rinasce” da qualche altra parte, lontanissima?
Verrebbe da dire: è questo qui il mondo che ci definisce perché ci siamo arrivati in qualche modo, doloroso o bizzarro, quale che siano i punti di partenza, comunque si sia giunti fin qui, indipendentemente dalle radici. In fondo, sulla “polvere delle nostre zavorre” il cielo azzurro sa di esistere e di splendere per noi. Dopo tanti anni e innumerevoli traversie, il “mondo” di chi è andato via potrebbe essere molto diverso dalla sua origine, e risultare insostituibile. Viaggiamo in un mare aperto e non sappiamo cosa portiamo con noi durante il lungo viaggio.
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