Quest’anno a Kyiv la primavera sarà più fredda e buia del solito – ma non c’entrano le condizioni atmosferiche. Persino il gelo tardo-invernale e giornate in gran parte nuvolose a cui gli ucraini sono storicamente abituati vengono interpretati come presagi nefasti.
La guerra con la Russia, che lunedì sarà giungerà al suo terzo anniversario, ha messo già a dura prova la resistenza della popolazione. Il futuro sembra però ancora peggiore, dopo la clamorosa inversione a U del presidente statunitense Donald Trump. Solo nell’ultima settimana, l’inquilino repubblicano della Casa Bianca si è spinto fino a definire l’omologo ucraino Volodymyr Zelensky un “dittatore non eletto” e un “mediocre commediante”. Ma soprattutto nei fatti ha riabilitato politicamente la Russia a scapito proprio di Kyiv e degli alleati europei.
Nella capitale ucraina è arrivato mercoledì l’inviato speciale USA Keith Kellogg, con il compito di raccogliere e riportare le voci di Kyiv alla Casa Bianca e viceversa. Fittissimo il calendario di incontri: mercoledì è toccato al comandante in capo Oleksandr Syrskyi, al capo dell’Ufficio presidenziale Andriy Yermak e ai capi dell’intelligence e della sicurezza di Kyiv.
Giovedì, Kellogg ha incontrato anche il ministro degli Esteri Andrii Sybiha “per discutere i modi per raggiungere una pace globale, giusta e duratura”, come ha in seguito dichiarato il massimo diplomatico ucraino, a detta del quale “la sicurezza dell’Ucraina e dell’area transatlantica è indivisibile”.
Nel pomeriggio l’inviato statunitense ha incontrato a porte chiuse anche Volodymyr Zelensky. Dopo l’incontro era prevista una conferenza stampa ma la delegazione di Washington avrebbe insistito sui colleghi ucraini per farla annullare, consentendo solo alcune riprese, come spiegato dal portavoce di Zelensky, Serhiy Nykyforov.
“Abbiamo avuto una conversazione dettagliata sulla situazione del campo di battaglia, su come restituire i nostri prigionieri di guerra e su efficaci garanzie di sicurezza“, ha commentato dopo l’incontro il leader ucraino su X. “L’Ucraina è pronta per un accordo forte ed efficace di investimenti e sicurezza con il presidente degli Stati Uniti”, Paese a cui Zelensky si è detto “grato per tutta l’assistenza e il supporto bipartisan all’Ucraina e al popolo ucraino. È importante per noi, e per l’intero mondo libero, che la forza americana si faccia sentire“.
Le bordate di Trump non sembrano comunque aver smosso troppo la posizione di Kyiv: la priorità rimane quella di una “pace giusta e duratura”. L’Ucraina continua a chiedere garanzie di sicurezza e a insistere sulla necessità di un accordo che vada oltre la mera difesa dei confini e che, soprattutto, veda Kyiv in un ruolo da protagonista insieme ai Paesi europei, che Trump è parso escludere dai negoziati salvo affibbiargli il gravoso compito di difendere militarmente l’Ucraina nel dopo-guerra.
In ciascuno dei suoi colloqui, Kellogg ha ascoltato, annotato, e seguito il filo del discorso dei vari interlocutori. Eppure la sensazione è che Trump ignori spesso tanto gli alleati quanto alcuni dei suoi consulenti, preferendo quello stile transazionale che è la sua cifra fin da quando ha iniziato a muovere i primi passi nel settore immobiliare di New York. Lo stesso Kellogg non è stato invitato alle trattative di pace inaugurate a Riad lo scorso 18 febbraio – dove gli è stato preferito l’inviato speciale per il Medio Oriente Steve Witkoff, fresco di una recente missione a Mosca per riportare a casa il prigioniero Marc Fogel. Oltre a lui, a delegazione statunitense era composta dal segretario di Stato Marco Rubio e dal consigliere per la Sicurezza nazionale Michael Waltz.
Alcuni addetti ai lavori hanno ipotizzato che Trump abbia privatamente criticato certe posizioni di Kellogg giudicate fin troppo filo-ucraine, e che secondo il presidente lo renderebbero inadatto al ruolo di negoziatore con Mosca. Da parte sua, il Cremlino ha invece elogiato Trump per aver parafrasato gran parte della propria narrazione sulla “operazione speciale” lanciata il 24 febbraio 2022 ai danni dell’Ucraina: a provocarla sarebbe stato lo stesso Zelensky, pur sapendo di non avere alcuna possibilità di vincere. E il leader ucraino sarebbe un “dittatore non eletto” – un riferimento alla sua scelta di posticipare le elezioni presidenziali ucraine (previste nel 2024) in base alla legge marziale.
Trump ha pure sostenuto che Zelensky avrebbe un indice di gradimento interno del 4%. Secondo un sondaggio dell’Istituto Internazionale di Sociologia di Kyiv, tuttavia, il dato reale si assesta intorno al 57% – che se confermato sarebbe ben superiore al 44% di Trump tra i cittadini americani (dati Ipsos/Reuters).
Mercoledì mattina Zelensky si era limitato a replicare che Trump, per il quale “nutre profondo rispetto in quanto leader del popolo americano”, vive in una “bolla di disinformazione” di matrice russa.

Al coro di voci critiche si è unita inconsuetamente anche della redazione del New York Post, uno dei più sonori megafoni del movimento MAGA (Make America Great Again). Ma che in un editoriale non ha esitato a definire “spregevole” il piano di Trump di abbandonare Kyiv al suo destino, chiedendole oltretutto di consentire agli USA l’accesso a circa 500 miliardi di terre rare, petrolio e minerali strategici per contraccambiare oltre cento miliardi di aiuti militari forniti sotto l’amministrazione Biden.
Un piano che, secondo il quotidiano newyorkese che fa capo a Lachlan Murdoch (figlio del magnate australiano Rupert), “è più severo di quello che gli alleati imposero alla Germania nella Pace di Versailles dopo la Prima Guerra Mondiale”. “Aiutare l’Ucraina a difendersi dall’invasione illegale e barbarica di Vladimir Putin è stata la cosa giusta da fare”, scrive il Post, che intravede “la possibilità di un accordo che lasci intatta la dignità dell’Ucraina e che sia vantaggioso per entrambe le parti (…) ma non questo”.
Disappunto condiviso dal capo analista politico di Fox News, altra stella polare mediatica della galassia trumpiana. “Musica per le orecchie di Vladimir Putin”, ha commentato Brit Hume su X, dove è lunghissima la lista di esponenti repubblicani di alto profilo (tra cui l’ex vicepresidente Mike Pence) che hanno espresso netta contrarietà alla svolta filo-russa.
Il cambio di paradigma si è ripercosso anche al G-7, che giovedì si è spaccato sul riferimento alla “aggressione russa” dell’Ucraina in una dichiarazione congiunta in occasione del terzo anniversario della guerra. Secondo il Financial Times, che cita cinque diplomatici occidentali, ad opporsi al virgolettato sono stati gli inviati statunitensi ritenendolo troppo ostile al Cremlino in un momento in cui Washington preferisce puntare tutto sul rapprochement con Putin. L’amministrazione Trump, a quanto si apprende, preferirebbe parlare piuttosto di “conflitto in Ucraina” – termine già impiegato due volte da Rubio nell’incontro con l’omologo russo Sergej Lavrov a Riad.
Anche all’ONU Washington si è rifiutata di co-sponsorizzare una bozza di risoluzione a sostegno dell’integrità territoriale, che verrà messa ai voti dell’Assemblea Generale lunedì. Anche in questo caso si tratta di una netta rottura con la precedente amministrazione Biden, che lo aveva sempre fatto.