Invito a cena al buio nei quartieri alti di Teheran. Suono il campanello del superattico che troneggia in un compound di lusso. E la scollatissima padrona di casa, che non mi aveva mai visto prima, mi accoglie con baci e abbracci allungandomi a mo’ di benvenuto un bicchierone colmo di whisky. Un po’ spiazzato declino l’offerta, adducendo come scusa che non bevo mai a stomaco vuoto. E per sottrarmi all’imbarazzo, dopo aver chiesto venia, mi rifugio velocemente nel salone dove sta tenendo banco l’affabile uomo d’affari che in aereo, di ritorno in patria, desiderava introdurmi nei circoli dell’high society iraniana.
Già durante il viaggio il businessman vicino di sedile mi aveva descritto un sorprendente panorama dei costumi sociali nella nomenclatura laica che si arricchiva coi traffici autorizzati dalla teocrazia. Un sottobosco occidentalizzato che godeva di privilegi e di coperture anche negli otto anni di regime oscurantista (2005-2013) in cui governava il presidente Mahmoud Ahmadinejad e in cui ebbi l’occasione di scoprire questo mondo parallelo. Uno scorcio di trasgressione tollerata in nome di un’altra teologia, quella del danaro, in un universo pietrificato dalla rigida osservanza degli usi ancestrali. E che resiste sia pure a fatica, contro ogni tentazione di modernità, ancora ai nostri giorni. Due anni esatti dopo la barbara uccisione di Mahsa Amini (seguita da altre orrende esecuzioni), colpevole non di camminare coi capelli al vento ma solo di non indossare correttamente l’hijab.
Per giorni avevo vagato per le caotiche strade della megalopoli iraniana alla ricerca di un segnale che collegasse a qualche barlume di modernità una società apparentemente appiattita solo sui ferrei principi dell’Islam sciita. Sì, c’era tensione nel mondo studentesco per una ribellione inevitabilmente generazionale alle restrizioni di libertà. Ma erano rivendicazioni perlopiù clandestine, che non trovavano uno sbocco politico, ed erano duramente represse dagli apparati di polizia. Sì, nei festival cinematografici e alle manifestazioni musicali si intravvedevano ammiccamenti ai nostri codici di relazione che non superavano però mai le frontiere tabù (come per le donne l’obbligo del velo). Nei giardini pubblici i fidanzati sedevano al massimo sulla stessa panchina ma badando accuratamente ad evitare le effusioni. Una vita dagli orizzonti limitati, anche rispetto ad altri paesi islamici per fede religiosa ma con aperture laiche. Come l’Iraq dell’ex dittatore Saddam Hussein, la Siria della dinastia Assad dove i night clubs rimanevano aperti fino all’alba, o gli Emirati Arabi dove a Dubai, nelle discoteche dei grandi alberghi, le prostitute dell’Est si contendevano la facoltosa clientela dei paesi arabi più chiusi che si concedeva periodicamente divagazioni erotiche nella mecca della tolleranza.
Solo la tecnologia in Iran aveva aperto qualche spiraglio. Il regime, pur esercitando un occhiuto controllo sui social, non aveva saputo opporsi all’invasione dei cellulari. E nelle serate senza luci e senza discoteche, in cui dopo mezzanotte nessun esercizio commerciale poteva rimanere aperto, i rampolli della borghesia affluente ricercavano scampoli di dolce vita scorrazzando fino all’alba in macchina (la circolazione era consentita) scambiandosi messaggi telefonici di corteggiamento e di allusioni sessuali tramite i canali Bluetooth.

La cena nel superattico era naturalmente a base di caviale pregiato, innaffiato da una vasta gamma di vini di marca e di superalcolici. Che la casta dei businessman riceveva dall’estero addirittura per posta. Con la complicità della polizia morale che chiedeva entrambi gli occhi in cambio di laute mazzette. La conversazione, eccitata dal fascino del proibito, non sfiorava mai le linee rosse imposte dal regime. Gli argomenti spaziavano in prevalenza dalla politica agli eventi culturali dell’Occidente. Le donne parlavano anche di moda. Delle ultime sfilate a Milano, Parigi, New York. E della rapidità con cui nei bagni delle linee aree (ovviamente occidentali) si sbarazzavano subito del velo e dei tuniconi in favore del trucco e della minigonna. L’Iran faceva capolino solo per i riferimenti alle gite nelle stazioni sciistiche (era inverno) che sovrastano Teheran.
Tutti i commensali – uomini e donne avvezzi a viaggiare – sembravano sufficientemente smaliziati da conoscere anche le sfumature del nostri mondi. DI cui, nelle trasferte, facevano il pieno di libertà. Che ricostruivano nell’intimità delle case sfruttando l’immunità di censo. E, al momento del congedo, si davano appuntamento per il fine settimana in un bunker di lusso che, sempre con il salvacondotto non ovviamente ufficiale dell’immunità di fatto, allietava con musiche occidentali le brigate degli abbienti ben oltre la mezzanotte.
Oggi l’Iran è governato dal nuovo presidente Masoud Pezeshkian anche se a tirare le file della politica e della morale è sempre la Guida Suprema Ali Khamenei. E’ un leader moderato che a parole sembra voler andare incontro alle elementari richieste di libertà delle donne. Al punto da invitare la polizia a mostrarsi più flessibile. Ma in passato già i riformisti Mohammed Khatami (1997-2005) e Hassan Rouhani (213-2021) tentarono invano di imprimere una svolta liberale. Alla fine ha sempre prevalso il clero avvinto alla tradizione con i bracci armati dei pasdaran e dei basiji. In questo momento storico l’insurrezione delle donne agli occhi dell’Occidente è messa in second’ordine dai tragici sviluppi nel Medio Oriente e dalla terrificante prospettiva di uno scontro fra Iran e Israele che rischia di sfociare nella terza guerra mondiale. Ma il processo di ribellione alle imposizioni medievali è ormai irreversibile. La modernità non può rimanere ancora a lungo ipocritamente e segretamente accessibile solo a una casta che contribuisce a tenere finanziariamente in piedi la teocrazia.