Il ritiro completo delle truppe ucraine dalle regioni orientali di Donetsk, Luhansk, Cherson e Zaporizhzhia, in aggiunta all’impegno di Kyiv a non entrare nella NATO.
Queste le condizioni che il presidente russo Vladimir Putin ha posto venerdì per mettere “immediatamente” fine al conflitto contro l’Ucraina. Un appello che arriva simbolicamente alla vigilia della conferenza di pace di Bürgenstock, dove i rappresentanti di un centinaio di nazioni (ad esclusione di Mosca, che non è stata invitata) saranno chiamati a delineare un percorso di tregua nel Paese est-europeo martoriato da due anni di conflitto.
Nel suo discorso al corpo diplomatico russo trasmesso dalla TV statale, lo “zar” pietroburghese ha segnalato la disponibilità a una tregua duratura in caso di rinuncia di Kyiv alle quattro regioni che la Russia ha annesso unilateralmente nel 2022 – ma di cui ancora oggi non ha pieno controllo.
A onor del vero, le uniche due regioni ritenute veramente essenziali da Putin sono quelle di Donetsk e Luhansk, in quel Donbass che da ormai dieci anni è teatro di guerra a causa delle rivendicazioni della maggioranza russofona (sostenute propagandisticamente e militarmente da Mosca). Il leader russo non ha invece escluso che l’Ucraina possa mantenere la propria sovranità sulle regioni meridionali di Cherson e Zaporizhzhia. “A condizione”, però, “che la Russia mantenga un forte legame terrestre con la Crimea” – altro territorio unilateralmente annesso dalle truppe russe, nel 2014. Lo scopo è quello di saldare geograficamente la “Nuova Russia” – Donbass e Crimea – alla Russia originaria e sancire il trionfale epilogo dell’invasione.

È però improbabile che a Kyiv scalpitino per dire sì ai desiderata di Putin. Le richieste ucraine rimangono infatti diametralmente opposte: a Mosca viene chiesta l’evacuazione militare dal Donbass e dalla Crimea, oltre al pagamento di miliardi di dollari in danni bellici e non meglio precisate “garanzie di sicurezza” per evitare future aggressioni. Un decreto firmato nell’ottobre 2022 dal presidente Volodymyr Zelensky vieta inoltre l’avvio di qualsiasi negoziato a meno che la prima condizione – quella del ritiro russo – non venga soddisfatta.
Dal 15 al 16 giugno, sarà proprio il leader ucraino ad esporre il suo piano di pace in dieci punti nell’amena cornice di Bürgenstock, resort svizzero di extralusso con vista sul lago di Lucerna. Ad ascoltarlo sono attesi i rappresentanti di circa 90 nazioni sulle 160 invitate. Circa metà degli Stati partecipanti sarà rappresentata al massimo livello, l’altra metà da ministri o funzionari governativi.
Come si accennava, saranno diverse le assenze di peso: oltre alla Russia (“Non ci si può sedere a parlare con una persona il cui unico obiettivo è distruggerti”, ha dichiarato Zelensky alla Reuters), diserteranno l’incontro anche la Cina (che secondo l’Occidente starebbe segretamente aiutando l’alleato russo fornendogli tecnologia a doppio uso militare-civile) e l’Arabia Saudita. Nella lista dei probabili assenti anche la Turchia, che pure nel recente passato ha mediato l’unica vera “tregua” siglata da Mosca e Kyiv finora: quella del grano, che ha consentito per oltre un anno l’esportazione di cereali ucraini ai mercati emergenti attraverso il Mar Nero e scongiurato una crisi alimentare globale.
L’assenza di Ankara, così come quelle di Pechino e Riad, rischia insomma di trasformare il concesso svizzero in una camera d’eco delle rivendicazioni ucraine. E perciò a non far segnare alcun avanzamento diplomatico. Se ne sono resi conto in anticipo anche gli Stati Uniti, che saranno rappresentanti dalla vicepresidente Kamala Harris. Non dal presidente Joe Biden, che pur avendo messo ribadito il supporto USA all’Ucraina al G7 di Fasano, volerà piuttosto in patria per partecipare a una raccolta fondi democratica con le stelle di Hollywood in vista delle cruciali elezioni di novembre contro Donald Trump (che da tempo chiede lo stop agli aiuti militari a Kyiv).

L’impressione di un flop annunciato è stata però confutata dal ministro degli Esteri svizzero, Ignazio Cassis, secondo cui a Lucerna verranno gettate le basi per colloqui di pace ai quali la Russia potrà partecipare in una fase successiva. Eppure i fatti dimostrano che sul campo è Mosca ad avere il coltello dalla parte del manico, sulla scia dei successi tattici a Charkiv e a Sumy. E il Cremlino difficilmente vorrà mettere la firma a trattative intavolate da altri.
A complicare ulteriormente le cose c’è l’attivismo pacifista “alternativo” della Cina, che pur non partecipando all’incontro di Lucerna sta promuovendo il proprio piano di pace, giudicato dall’Occidente come un surrogato di quello proposto da Putin. Dal canto suo, Pechino continua comunque a ribadire l’assoluta neutralità e che la sua posizione è “equa, giusta e aperta”.
Nella due-giorni svizzera gli ucraini non si aspettano grandi passi avanti, e perciò hanno deciso di mettere a fuoco appena tre punti: il rilascio dei prigionieri di guerra ucraini detenuti in Russia, la minaccia nucleare, e la sicurezza alimentare. Ai sherpa l’arduo compito di redigere una dichiarazione finale che dia l’impressione che non si sia trattato solo di una gita di lusso.