Lip service, un termine comune negli Stati Uniti. Un dizionario on-line fornisce un esempio per l’uso delle due parole: Obama paid lip service to closing Guantanamo, but he hasn’t taken action yet. Ossia: Obama a parole ha detto di voler chiudere Guantanamo ma non ha ancora fatto niente. La prigione di massima sicurezza creata dagli Usa su un lembo dell’isola di Cuba per poter fare ai prigionieri cose proibite dalle leggi americane è sempre in piedi. Obama, presidente delle buone intenzioni, premio Nobel per la pace in Medio Oriente che non ha mai prodotto è “in pensione”. Al suo posto c’è Biden. C’è chi dice anche a Washington e tra i suoi che dovrebbe andare in pensione: lui per ora non molla la poltrona. Lo vorrebbe per se o almeno tenerla calda per qualcuno del suo partito democratico quando tra un anno gli americani andranno a votare.
La guerra in Medio Oriente, le atrocità di Hamas nei confronti della popolazione civile israeliana e il massiccio assalto di Israele alla striscia di Gaza sono solo uno dei problemi dell’anziano presidente e cresce il sospetto che per evitare l’allargamento del conflitto tra Hamas e Israele e per salvare in qualche modo il futuro del partito democratico stia ora facendo lip service all’idea di uno stato palestinese accanto a Israele. “La soluzione di due stati deve venire subito dopo” avrebbe detto ieri al premier israeliano Netanyahu, il politico più screditato di Israele e l’uomo che oltre a pensare – lo dicono gli israeliani – a se stesso, alla sua famiglia, al proprio ruolo politico – è da sempre impegnato per impedire ai palestinesi di vivere in uno stato indipendente accanto a Israele.
“Bibi” è da sempre un sostenitore della vecchia piattaforma del Likud, il partito di centro che lo portò alla guida del paese: Israele deve essere riconosciuto come stato ebraico entro confini che vanno dal Mediterraneo al fiume Giordano. Anche in questi giorni i partner di Netanyahu nella coalizione di governo stanno allargando e potenziando gli insediamenti e le colonie in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, la zona araba della città, che secondo gli accordi firmati sul prato della Casa bianca dovrebbe ospitare la sede della capitale di uno stato palestinese.
Nelle sue osservazioni di ieri sul conflitto in rapida escalation, Biden ha espresso una “mancanza di fiducia nel bilancio delle vittime auto-riferito dai palestinesi a Gaza” e criticava aspramente i coloni “estremisti” della Cisgiordania per “lancio di benzina sul fuoco” nei loro attacchi contro i palestinesi locali. E’ possibile, forse probabile, che le autorità sanitarie di Gaza, vicine ad Hamas o condizionate dalle forze integraliste, stiano esagerando il numero delle vittime ma le parole del presidente americano sono apparse inutilmente sbilanciate a favore di Israele di fronte alle immagini della distruzione di interi quartieri di Gaza da parte dei missili e dei bombardieri israeliani.
Torniamo al futuro perché è la chiave anche del presente. Biden e gli europei, nell’immediato, sperano di contenere la guerra. La flotta americana, i missili Usa in arrivo nella zona, i consiglieri militari americani cercano di gestire, in qualche modo, la rappresaglia israeliana per l’eccidio compiuto da Hamas e allo stesso tempo di scoraggiare l’Iran e i suoi alleati da ogni tentazione di allargare il conflitto. Ieri due docenti di Bar Ilan, fino a poco tempo fa, considerato il più religioso e politicamente estremista ateneo di Israele, con il suo campus in una città-colonia (Cisgiordania occupata), da dove uscì l’assassino di Itzhak Rabin hanno abbozzato un piano. Credibile? Forse.
“Gli israeliani – spiega un riassunto – si sono uniti intorno all’obiettivo di rovesciare il regime di Hamas, ma poco è stato detto su ciò che sarebbe venuto dopo. Questo problema è fondamentale per la sicurezza di Israele e deve essere affrontato. Gli interessi israeliani sono meglio serviti stabilendo a Gaza un’amministrazione legata alla PA insieme a un massiccio programma di ricostruzione sostenuto dagli Stati Uniti e da altri attori internazionali e regionali. La dichiarazione di sostegno di Israele per stabilire un tale regime a Gaza il prima possibile fornirebbe una direzione politica all’operazione militare e ne migliorerebbe la legittimità internazionale. Sconfiggere Hamas deve in definitiva significare non solo la sua distruzione militare, ma l’empowerment di un’alternativa palestinese moderata”.
Nelle conclusioni, leggiamo: “Per troppo tempo, Israele non è riuscito ad articolare un orizzonte diplomatico che potrebbe dare potere ai moderati palestinesi in opposizione ad Hamas e ad altri estremisti, credendo che questi ultimi potevano essere contenuti. Ora è chiaro che non solo la legittimità di Israele come stato ebraico e democratico dipende in definitiva da un accordo a due stati, ma la sua sicurezza dipende dal potenziamento della politica palestinese non jihadista”.
Analisi quasi perfetta. Progetto forse ancora possibile nel quasi immediato futuro ma c’è da chiedersi se il progetto-idea-convinzione di due studiosi possa essere seguita dalla leadership israeliana che uscirà dalle macerie anche politiche del conflitto. C’è da chiedersi, innanzitutto, se la maggioranza degli israeliani accetterà l’idea stessa di uno stato palestinese accanto a Israele e soprattutto se è pronta ad affrontare realisticamente la non facile situazione sul terreno in Cisgiordania dove alcune delle colonie degli occupanti sono ormai metropoli e la popolazione è quattro, forse cinque volte quella che era quando Rabin, Peres e Arafat firmarono il loro fallito accordo trenta anni fa.
E c’è da chiedersi – non è da poco – se il prossimo inquilino della Casa bianca – Biden, un suo erede democratico o oppositore repubblicano – avrà voglia di affrontare, senza esitazioni e con decisione, il lungo conflitto tra Israele e il popolo palestinese. È una domanda più che legittima in un mondo che per quasi due anni si è concentrato sulla guerra Russia-Ucraina, oggi sembra messa in pausa, senza dedicare spazio al costante deterioramento della situazione – o meglio, delle varie situazioni potenzialmente esplosive, mediorientali.