La Casa Bianca ha dato il via libera a un nuovo pacchetto di aiuti militari all’Ucraina del valore di circa 800 milioni di dollari. E fin qui, nulla di nuovo sotto il sole. Dopotutto, dallo scoppio della guerra, il Pentagono ha già stanziato ben 39 miliardi di dollari per aiutare le truppe di Kyiv a resistere all’aggressione russa (al netto di qualche clamoroso errore contabile dei suoi generali).
La novità vera è che stavolta, tra blindati e casse di munizioni, faranno il loro debutto anche le famigerate bombe a grappolo – che hanno il potenziale di aprire un nuovo e assai controverso capitolo nel risoluto supporto bellico statunitense all’alleato ucraino. Biden ci ha pensato a lungo, ma ha infine accantonato la questione morale – legata ai devastanti danni collaterali – per abbracciare il pragmatismo bellico.
In gergo tecnico sono note come DPICM – ossia “munizioni convenzionali migliorate a doppio scopo“, che dal 2016 stagnano nei depositi militari USA. Le autorità militari hanno deciso di eliminarle gradualmente dal loro equipaggiamento a causa della pericolosità, nonostante ne abbiano fatto ampio uso durante l’invasione dell’Iraq dal 2003 al 2006.

Impiegate per la prima volta durante la Seconda Guerra Mondiale, le bombe a grappolo sono progettate per disintegrarsi a mezz’aria e disperdere piccoli esplosivi in un’area più ampia, ciascuno dei quali detona all’impatto con il suolo.
Si tratta di armi formidabili, dato che i proiettili di una DPICM hanno cariche sagomate che, lanciate contro un carro armato o un veicolo corazzato, riescono a perforarne la corazza metallica e renderlo di fatto inutilizzabile. E, al fronte, di mezzi corazzati russi ce ne sono parecchi, dato che Mosca sposa la vecchia dottrina militare sovietica incentrata su un massiccio utilizzo di mezzi pesanti per ottenere la superiorità terrestre.
Come si accennava, la Casa Bianca e il Pentagono hanno esitato a lungo prima di cedere alle richieste del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, il quale da tempo chiede tanto le bombe a grappolo, quanto i moderni caccia militari F-16 occidentali.
La questione più spinosa riguarda il tasso di inesplosione estremamente elevato. Statisticamente, infatti, un quinto delle bombe non deflagra subito ma potrebbe farlo a distanza di giorni o mesi, alla minima sollecitazione da parte di chiunque le sfiori (ma a volte non è nemmeno necessario). Non a caso si stima che esse abbiano mietuto tra le 56.500 e le 86.500 vittime civili dal 1939 ad oggi. Senza contare il fatto che DPICM e dispositivi analoghi sono illegali in più di 100 Paesi del mondo (tra cui l’Itala) che hanno sottoscritto la Convenzione di Dublino del 2008.

Pat Ryder, portavoce del Pentagono, ha assicurato che le munizioni a grappolo fornite all’Ucraina “non includeranno le varianti più vecchie con tassi di inesplosione superiori al 2,35%”. “Le DPICM apportano al campo di battaglia una capacità anti-corazza e anti-uomo”, ha aggiunto Ryder sottolineandone l’utilità per la controffensiva di Kyiv nel Donbass e nel Sud occupato dai russi.
Beninteso, per le cluster bombs non si tratta di un esordio assoluto nel conflitto: questo tipo di munizioni fa infatti già parte dell’arsenale bellico tanto di Mosca quanto di Kyiv (il cui fornitore di riferimento è attualmente la Turchia, che è un Paese della NATO).
Le autorità statunitensi in passato hanno più volte accusato la Russia di aver utilizzato bombe a grappolo “indiscriminatamente” in aree civili popolate e al fronte. Ma anche l’Ucraina vi ha fatto più volte ricorso, secondo l’ONU. Tant’è che l’ONG Cluster Munition Coalition sostiene che siano almeno 689 le vittime di questo tipo di dispositivi solo nei primi sei mesi di guerra.

La fornitura di DPICM è destinata a provocare più di un malumore all’interno della NATO, in vista dell’imminente vertice dell’Alleanza Atlantica a Vilnius in programma l’11 e il 12 luglio. Tra i Paesi che hanno dichiarato fuorilegge le bombe a grappolo ci sono infatti tre quarti dell’Alleanza, compresi quattro dei principali alleati europei di Washington: Regno Unito, Germania, Francia e Italia.
La ministra degli Esteri tedesca, Annalena Baerbock, ha manifestato il suo disappunto per la decisione di Biden, mentre il portavoce del cancelliere Olaf Scholz si è mostrato più comprensivo: “Siamo certi che i nostri amici statunitensi non hanno preso alla leggera la decisione di fornire tali munizioni”, le sue parole.
Il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg – recentemente confermato ad interim – ha invece sostanzialmente evitato di prendere posizione, affermando che “la decisione spetta ai singoli Governi, non alla NATO come alleanza”.
Al vertice lituano si discuterà però anche di nuovi ingressi “giallo-blù”. In primis quello della Svezia, la cui candidatura è di fatto bloccata da mesi dal veto del presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Il leader di Ankara sostiene infatti che Stoccolma ospiti esuli e rifugiati curdi affiliati al PKK, che in Turchia è ritenuto un’organizzazione terroristica. A poco è servita finora la mediazione della Casa Bianca, nonostante Joe Biden mercoledì scorso abbia riferito al premier svedese Ulf Kristersson di essere “in trepida attesa” che Stoccolma diventi il 32° Stato membro.
Sul tavolo resta anche la candidatura dell’Ucraina. Alla due-giorni lituana è atteso anche Zelensky, che ribadirà il mantra di Kyiv: essere ammessa nell’Alleanza una volta terminata la guerra. “Mi aspetto che i leaders alleati riaffermino che l’Ucraina diventerà un membro della NATO e si uniscano su come avvicinare l’Ucraina a questo obiettivo”, ha preannunciato Stoltenberg.
Qualche passo avanti a Vilnius effettivamente ci sarà, con il lancio di un nuovo Consiglio NATO-Ucraina e il previsto stanziamento di 500 milioni di euro per un programma pluriennale volto ad avvicinare l’Ucraina agli standards dell’Alleanza. Tuttavia, se per la candidatura svedese c’è da superare il solo veto turco, nel caso ucraino lo scetticismo pare più generalizzato. E coinvolge anche alleati di peso (come la Germania) che preferirebbero rimandare il discorso a data da destinarsi.