Si chiama Ferdinand Marcos Jr. come suo padre il nuovo leader delle Filippine. E proprio come lui si appresta ad entrare trionfante al Palazzo di Malacañan di Manila, residenza ufficiale del presidente. Molti filippini, però, si augurano che le analogie tra consanguinei terminino qui.
Sono passati poco meno di 60 anni dall’elezione del primo Marcos alla massima carica istituzionale della nazione sud-est asiatica. Era il 30 dicembre 1965 e il giurista Ferdinand Marcos Sr. inaugurava un mandato che sulla carta sarebbe dovuto durare 4 anni, ma che in pratica ne durò più di 20, tramutandosi in dittatura.
Lo scorso 9 maggio è stata invece la volta di Ferdinand Marcos Jr., noto ai più per il nickname “Bongbong“, che ha sbaragliato la concorrenza nelle attesissime elezioni presidenziali di Manila conquistando il 59% dei voti.
Un semi-plebiscito che ha lasciato a bocca asciutta anzitutto la sfidante di “Bongbong”, Leni Robredo, fermatasi a un magro 29%. Vicepresidente uscente, Robredo aveva deciso di permeare la sua campagna elettorale proprio sul risentimento popolare verso la controversa dinastia dei Marcos. Un calcolo evidentemente sbagliato, dato che l'”onda rosa” chiesta da Robredo ai suoi sostenitori si è infranta sul solido muro di un passato tornato decisamente d’attualità.

C’era anche l’allora 28enne Ferdinand Jr. quel giorno di febbraio del 1986, quando i Marcos salirono su un jet di sola andata per le Hawaii. Si stavano lasciando alle spalle un Paese in piena fibrillazione popolare, delle Filippine che non li volevano più. Giornate passate poi alla storia come “Rivoluzione del Rosario” (o Rivoluzione del Potere Popolare).
Tre anni prima, nel 1983, lo Stato asiatico era stato infatti scosso dall’uccisione di Benigno Aquino, principale oppositore di Ferdinand Marcos (padre) che da tre anni viveva in esilio negli USA. Tornato in patria, l’uomo non aveva fatto nemmeno in tempo a lasciare l’aeroporto che era stato freddato con un revolver.
Quel giorno però non si era consumata solo la morte di un oppositore, ma anche l’inizio della fine del regime di Marcos: eletto democraticamente nel 1965 e per una seconda volta nel 1969, Ferdinand Marcos Sr. aveva imposto la legge marziale nel 1972 per prolungare la sua permanenza al vertice. Anni caratterizzati da corruzione e povertà dilaganti, violazioni sistematiche dei diritti umani e un debito pubblico portato alle stelle dal piano infrastrutturale del regime.
Nei mesi successivi all’uccisione di Benigno, Marcos promise elezioni anticipate per limitare il brusio popolare. Decise di parteciparvi anche la vedova dell’oppositore, Cory Aquino, che venne però battuta grazie a brogli su vasta scala. Fu quest’ultimo fiasco elettorale la genesi della Rivoluzione del Rosario – del “rosario” perché fu sostenuta in primo piano dalle gerarchie cattoliche filippine (e dall’esercito) – e della successiva fuga dei Marcos.
Riammesso in patria nel 1992, il figlio omonimo dell’autocrate da allora ha costruito passo dopo passo il suo percorso verso la presidenza: da governatore della provincia di Ilocos Norte (feudo dei Marcos) a deputato, e poi da senatore a presidente.

La vittoria dello scorso 9 maggio non è però solo merito del 65enne Ferdinand: c’è infatti lo zampino di Sara Duterte, figlia del presidente uscente Rodrigo, guadagnatosi in Occidente la fama di istrionico “Trump asiatico“. Avesse scelto di candidarsi, la rampolla Duterte avrebbe teoricamente sbaragliato la concorrenza del sodale Marcos, ma ha deciso di accontentarsi (per il momento) della vicepresidenza – a cui è stata eletta separatamente con il 61% dei voti.
Il sodalizio Marcos-Duterte è però anche merito di una politica levigata: Gloria Macapagal-Arroyo, ex presidente anch’ella dai natali assai nobili. È infatti la figlia di Diosdado Macapagal, a sua volta presidente dal 1961 al 1965, appena prima dell’avvento di Ferdinand Marcos.
Dinastie politiche filippine che si contaminano, si combattono e, all’occorrenza, intrecciano unioni alla stessa maniera delle casate europee medievali. Una dinamica che si ripete anche ai livelli più bassi di governo: l’Economist ha stimato che l’80% dei governatori e il 67% dei deputati filippini faccia parte di una famiglia che conta al suo interno almeno un altro pubblico ufficiale.
Ferdinand Jr. ha una personalità assai diversa da quella del padre, è amato dalla Gen Z – che lo ha votato in massa –, e sembra voler dare al suo esecutivo un’impronta più tecnica che autoritaria. Rimane lo scoglio della politica estera: nelle intenzioni di Ferdinand sembra esserci il riavvicinamento strategico con gli Stati Uniti. Un cambio di rotta rispetto al predecessore Duterte, il cui rapporto con la Casa Bianca è stato eufemisticamente turbolento, anche a causa della liaison con la nemesi di Washington: la Cina.
Il nuovo indirizzo strategico, però, dovrà tenere conto della presenza nella compagine governativa della figlia di Duterte, Sara, prevedibilmente recalcitrante ad abbandonare la strada tracciata dall’amato padre. Che l’intricato gioco delle dinastie abbia inizio.