L’ancora ricordato e amato rabbino capo della comunità ebraica romana Elio Toaff, sfuggito per un soffio dalle persecuzioni razziali dei nazi-fascisti, pur uomo mite e sereno, nell’organizzare i suoi viaggi aveva sempre cura di evitare di sorvolare, per qualsivoglia ragione, la Germania; e mai volle stringere la mano a un tedesco. Lo si può comprendere.
Un sentimento di irriducibilità che si spiega sol che si vada a Yad Vashem, l’Ente nazionale per la Memoria della Shoah di Gerusalemme: istituito per “documentare e tramandare la storia del popolo ebraico durante la Shoah preservando la memoria di ognuna delle sei milioni di vittime”, e ricordare e celebrare i non ebrei che rischiarono le loro vite per aiutare gli ebrei durante la Shoah. Fondato il 19 agosto 1953 con la “Legge del memoriale” approvata dal Parlamento israeliano, il luogo che ospita tutte le strutture del Memoriale sorge sul versante occidentale del Monte Herzl (“Monte della Memoria” o “Monte del Ricordo”), della foresta di Gerusalemme, con un museo storico che occupa un’area di 4 200 m² con strutture prevalentemente sotterranee.

FOTOGRAFIA DEL FILM SOVIETICO della liberazione di
Auschwitz. (Fonte: intervista ad Alexander Voronzow, Chronos-Films, The
Liberazione di Auschwitz, 1986.
Credit: Museo commemorativo dell’Olocausto degli Stati Uniti, per gentile concessione di
Archivio statale bielorusso di film documentari e fotografia – @Flickr)
Una struttura che non è facile descrivere; perché come si fa a descrivere l’orrore concepito dalla follia nazista e dei loro alleati? La “Sala dei Nomi”, per esempio: rappresenta “il memoriale del popolo ebraico ad ogni ebreo che trovò la morte durante l’Olocausto, un luogo dove [quelle vittime] possono essere commemorate per le generazioni a venire”. La Sala e Museo Storico sono opera dell’architetto Moshe Safdie che si è avvalso della collaborazione della designer Dorit Harel. Nella Sala, le “Pagine di Testimonianza”: brevi biografie di ogni vittima dell’Olocausto, vere e proprie “lapidi simboliche” che trovano posto nell’archivio circolare a parete, in grado di contenere 6.000.000 di storie. Attualmente sono oltre 2.000.000 le schede certificate e recensite riguardanti le vittime ebree della Shoah. L’archivio è in costante aggiornamento. Al centro della Sala, assicurato da robusti tiranti, un grande cono alto dieci metri. Al suo interno, un campione delle vittime della Shoah: 600 fotografie con frammenti dei loro testi biografici. Le foto si riflettono nell’acqua “alla base di un cono opposto scavato roccia della montagna” su cui poggia la Sala. In fondo alla sala, in uno schermo di vetro sono proiettati di continuo le “Pagine di Testimonianza”. In una sala vicina chiunque può ottenere informazioni sul nome di una vittima, i parenti o le vittime con un certo cognome; chi è sopravvissuto, o è stato ucciso. E’ un enorme database con tutti i nomi delle vittime e il luogo dove sono state uccise. Un database in continuo aggiornamento.

Auschwitz. (Fonte: intervista ad Alexander Voronzow, Chronos-Films, The
Liberazione di Auschwitz, 1986.
Credit: Museo commemorativo dell’Olocausto degli Stati Uniti, per gentile concessione di
Archivio statale bielorusso di film documentari e fotografia – @Flickr)
C’è poi un altro luogo “simbolo”, ma per visitarlo occorre non provare sentimenti come quelli del rabbino capo Toaff. E’ una villa sulla riva del lago Großer Wannsee, periferia sud di Berlino. Una villa, molto bella, circondata da un parco di tre ettari: in primavera fiorisce un bel roseto da un lato; e si possono scorgere barche a vela e battelli con turisti che solcano le acque del lago. In quella porzione di terrestre paradiso, persone malvagie hanno concepito l’orrore. E’ lì che ha avuto luogo la “Wannsee Konferenz” per organizzare lo sterminio di sei milioni di ebrei.

Si provi a immaginare la scena: nel grande salone, un altrettanto grande tavolo ovale: seduti in quindici. E’ il 20 gennaio del 1942. Le decisioni a dire il vero si sono già prese. Reinhard Heydrich vuole l’incontro per la messa a punto; Adolf Eichmann si incarica dell’organizzazione e convoca quindici responsabili delle SS, del partito nazista e di diversi ministeri per deliberare le modalità del genocidio. Fino ad allora gli ebrei sono massacrati come e dove capita; ora si vuole pianificare in modo scientifico lo sterminio. Non c’è unanimità, ma chi obietta non lo fa per un sentimento di pietà, tutt’altro: in piena guerra non ritiene opportuno “perdere tempo” con gli ebrei; li si può eliminare “dopo” aver vinto, “con calma”.
La “Konferenz” dura un’ora e mezza. Di quell’evento sono soprattutto due documenti, a darne conto: un verbale di 15 pagine fortunosamente ritrovato nel 1947, “affogato” in una pila di documenti del Ministero degli Esteri nazista; e gli atti dell’interrogatorio di Eichmann durante il processo a Gerusalemme nel 1961.
L’unico punto all’ordine del giorno, riferisce il verbale, è “la soluzione finale della questione ebraica”, discussa sia nei risultati già raggiunti, e nei problemi “applicativi” emersi fino a quel momento: la volontà di allargare le deportazioni a tutta l’Europa, per sterminare gli 11 milioni di ebrei che i nazisti calcolarono vivere nel continente. Tramonta la “svantaggiosa” soluzione della loro emigrazione forzata; archiviata anche l’idea di un trasferimento forzoso in Madagascar, il dibattito si sposta sulle deportazioni di massa verso l’Est europeo, sul lavoro come strumento del genocidio, l’eliminazione ‘della parte restante’, che fosse sopravvissuta. Christoph Kreutzmüller, storico alla Casa-Museo della Conferenza di Wannsee, spiega che comunque “Lo sterminio della popolazione ebraica era già in corso da tempo: al momento di quella riunione il 20 gennaio 1942, i nazisti avevano ucciso già un milione di ebrei”.

In effetti, in alcuni appunti di Josef Goebblels si legge che in una riunione dei Gauleiter convocati da Hitler il 12 dicembre 1941 a Berlino, il dittatore “ha espresso la volontà di fare ‘piazza pulita’ degli ebrei”; e già nel luglio 1941, Hermann Göring incarica il capo della Sicurezza del Reich Heydrich di mettere a punto un piano strategico per attuare la «soluzione finale». Ad ogni modo è il 20 gennaio 1942, a villa Wannsee, che Heydrich impone uno stringente coordinamento delle azioni dei dirigenti operativi della burocrazia nazista, in vista dell’annientamento degli ebrei d’Europa.
Durante la riunione c’è anche il tempo per informarsi dove ci si trova esattamente. Di chi è la villa?, chiede uno dei partecipanti alla riunione. “Di un ebreo”, la risposta. Non è vero. Il proprietario si chiama Friedrich Minoux, anche la sua storia val la pena di conoscerla.
Minoux è figlio di un sarto; il genitore muore quando Friedrich ha 15 anni; costretto ad abbandonare gli studi, viene assunto da Hugo Stinnes, magnate del carbone e dell’acciaio; in breve ne diventa il braccio destro. Friedrick nel 1923 viene contattato da Hitler; è la vigilia del putsch di Monaco, i nazisti pensano al nuovo governo. Serve un ministro delle finanze; Minoux propone il banchiere Max Warburg. Hitler si irrigidisce: “E’ un ebreo!”. “Comunque è il più bravo”, obietta Friedrich. Risposta sbagliata.

Minoux ci sa fare, con gli affari; è bravo anche lui. Si può permettere di acquistare la villa Wannsee. Poi commette altri “errori”: non sovvenziona il partito nazista; di più: aiuta alcuni amici ebrei. Heydrich nel 1940 lo fa condannare per truffa nel ’40; si impadronisce della villa. Minoux verrà poi liberato dai russi, e morirà nell’ottobre del 1945 in seguito alla fame e alle sofferenze patite in carcere.
La villa ha rischiato di finire in rovina e se oggi è un Museo della memoria lo si deve allo storico polacco Joseph Wulf. Figlio di un ricco commerciante ebreo di Cracovia, quando arrivano i nazisti, Joseph si unisce ai partigiani. Catturato, nel 1943 viene deportato ad Auschwitz; nel 1945 riesce a fuggire. Con questa storia alle spalle, a guerra finita, Wulf si batte perché la villa diventi un luogo di Memoria. Trova un alleato il Willy Brandt, sindaco di Berlino; ma quando Brandt lascia la carica per presentarsi candidato Cancelliere, il progetto sembra arenarsi. Il successore, il socialdemocratico Klaus Schutz preferirebbe “dimenticare”, nel timore che possa alimentare nuove ondate di antisemitismo. Nel 1974, depresso e deluso Wulf si uccide. Probabilmente alla base di questo gesto anche il dolore della morte, l’anno prima. Infine il 30 gennaio 1992 la villa diventa Museo; la biblioteca è intitolata a Wulf.