La Casa Bianca ha minacciato sanzioni contro il patrimonio personale di Vladimir Putin e un divieto di esportazione di alcuni prodotti tecnologici in caso d’invasione russa dell’Ucraina. Il pacchetto di misure dà sostanza alle “enormi conseguenze” promesse da Biden dopo l’eventuale attacco russo contro Kiev, che Washington ritiene imminente a causa della presenza di oltre 100.000 truppe di Mosca al confine.
In particolare, una fonte interna all’amministrazione Biden ha spiegato che le misure punitive comprenderebbero i possedimenti in Occidente del capo di Stato russo, accusato dal movimento anti-corruzione di Aleksej Naval’nyj di essere uno degli uomini più ricchi del mondo grazie a vari prestanome.
In aggiunta, gli USA hanno intenzione di impedire le esportazioni di attrezzature hi-tech made in USA nei settori dell’intelligenza artificiale, del calcolo quantistico e dell’industria aerospaziale. L’obiettivo, spiega l’alto funzionario, è tagliare le gambe alle ambizioni strategiche di Putin e assestare un duro colpo all’industrializzazione dell’economia russa.
Per dare credibilità alle minacce, l’amministrazione Biden ha rivelato di essere al lavoro con diversi Stati produttori di energia in Medio Oriente, Africa del Nord e Asia. L’obiettivo è quello di assicurare un’opzione di backup all’Europa in caso di interruzione dei flussi di gas dalla Russia. Lo spauracchio che i rubinetti vengano chiusi in pieno inverno è forte e inquieta il Vecchio Continente, che dipende da Gazprom e co. per quasi la metà del proprio fabbisogno energetico.
In questo contesto si inserisce l’incontro che Biden avrà a fine mese, il 31 gennaio, con l’emiro del Qatar, Tamim bin Hamad. La questione energetica è difatti ritenuta cruciale per vincere l’indecisione di alcuni Stati UE (Germania su tutti, accusata di tenere il piede in due scarpe) nell’unitarietà della coalizione occidentale contro Putin e alleati, tra i quali il presidente bielorusso Lukašėnka.

A poca distanza temporale, la Russia ha risposto per le rime, sia a parole che nei fatti. Verbalmente, per il tramite del ministro degli Esteri Sergej Lavrov. “Se l’Occidente proseguirà con il suo atteggiamento aggressivo, Mosca adotterà le necessarie contromisure,” ha avvertito Lavrov alla Duma mercoledì. Lavrov ha poi sibillinamente affermato che la Russia ha intenzione di approfondire i rapporti con Cuba e Venezuela – rifiutandosi di escludere la possibilità che, in futuro, Mosca possa schierare missili in America Latina. Una reticenza che era stata già sposata dal suo vice, Sergej Rjabkov, due settimane fa.
La Russia, ha aggiunto, è in attesa alle risposte scritte di Washington sulle richieste avanzate da Mosca (divieto di ingresso di Kiev nella NATO e indietreggiamento dell’Alleanza), promesse nell’incontro di venerdì tra il segretario di Stato Blinken e lo stesso Lavrov. Risposte che sono arrivate nel pomeriggio di mercoledì, ma il cui contenuto non è stato divulgato.
Sul campo, invece, il Cremlino ha annunciato nuove esercitazioni militari nei pressi dell’Ucraina, coinvolgenti circa 6.000 truppe e un ricco arsenale di caccia, sistemi antiaereo e navi. L’addestramento segue di appena 24 ore l’annuncio del Pentagono della messa in stato d’allerta di 8.500 soldati pronti a essere schierati sul fianco orientale della NATO.
A livello parlamentare invece, la Duma di Stato (camera bassa) potrebbe iniziare a breve la discussione sul riconoscimento delle repubbliche separatiste filo-russe di Doneck e Luhans’k, autoproclamatesi indipendenti e in conflitto con il Governo centrale di Kiev. A chiedere il riconoscimento è soprattutto il Partito Comunista (all’opposizione) di Gennadij Zjuganov, mentre il Cremlino invita alla cautela e spinge per rimandare la questione per evitare di appensantire il clima internazionale.

Sul piano interno, la prospettiva di un testa a testa commerciale non è però stata ben accolta dalla comunità commerciale USA, che ha chiesto alla Casa Bianca maggiore cautela. In una lettera sottoscritta dal National Foreign Trade Council (NFTC) – che tra le sue file conta colossi come Coca-Cola, Facebook, Ford, General Electric, Google, IBM, Microsoft, Pfizer, Stellantis e Visa – le aziende hanno sottolineato la necessità che l’amministrazione prenda in considerazione tutti i fattori prima di dare seguito alla minaccia sanzionatoria.
Secondo Jake Colvin, presidente del NFTC, la Casa Bianca dovrebbe valutare la creazione di “porti sicuri o di periodi di liquidazione per permettere alle aziende di adempiere ai contratti e agli obblighi esistenti”.
Gli fa eco l’American Petroleum Institute, principale lobby statunitense dell’Oil&Gas, che chiede che le sanzioni siano “più mirate possibili per evitare potenziali danni alla competitività delle aziende statunitensi”.