In un celebre brano popolare russo del 1938, Katjuša (“piccola Katja”) è il nome di una fanciulla che si dispera per la lontananza del suo amato, un soldato mandato al fronte a difendere la patria. Si chiama curiosamente Katjuša anche l’innovativo software di cybersecurity utilizzato dal Cremlino e dal ministero della Difesa russo per monitorare i media, messo a punto da una società tecnologica moscovita con un nome da battaglia navale: M-13.
Come rivelato da Bloomberg, M-13 è un’azienda IT con una lista pesantissima di clienti nelle sale dei bottoni russe: dal Cremlino al Governo, dalla città di Mosca all’intelligence militare. Tutti sembrano adorare M-13 e il suo CEO, l’imprenditore 41enne Vladislav Kljušin, che grazie ai suoi prodotti di cybersecurity e monitoring (come Katjuša) è riuscito a mettere da parte milioni di dollari, uno yacht di lusso e un appartamento principesco a Londra.
Dallo scorso 18 dicembre, ad allarmarsi per la lontananza dell'”amato” Kljušin non è la giovane Katjuša, ma le autorità russe. Sono stati infatti i rivali statunitensi ad aver “accolto” a Boston il milionario moscovita dopo averne chiesto (e ottenuto) l’estradizione dalla Svizzera. L’accusa formale è di insider trading: Kljušin e co. avrebbero hackerato il sistema online che raccoglie i rapporti trimestrali delle società quotate a Wall Street pochi giorni prima della loro pubblicazione ufficiale, con lo scopo di lucrare sull’andamento futuro delle azioni. Una tale imprudenza potrebbe costargli dai 20 ai 50 anni di galera, ma a Washington potrebbero aver trovato il modo di addolcire la pillola.
Russian national Vladislav Klyushin was extradited to the U.S. from Switzerland and is charged, along with four other Russians, for his alleged role in a global conspiracy to obtain unauthorized access to U.S. networks to commit wire and securities fraud. https://t.co/Egeiqs6Xge pic.twitter.com/xgp3FkBKkL
— FBI (@FBI) December 20, 2021
Non è certo (solo) un “semplice” insider trader quello per cui il Dipartimento di Stato si è attivato così diligentemente per il trasferimento dalla Confederazione elvetica, dove il 41enne era stato arrestato lo scorso 21 marzo durante una vacanza in famiglia nel Canton Vallese. Kljušin scotta più di un qualsiasi lupo di Wall Street: è uno dei consulenti cyber più influenti di Russia, decorato dal presidente Putin per il suo contributo alla nazione ed è/era nelle grazie degli apparatčiki e delle spie moscovite. Perciò c’è una speranza che anima in particolare lo spirito degli inquirenti a stelle e strisce: che Kljušin sia il tassello decisivo per accertare finalmente l’influenza russa sulle elezioni statunitensi del 2016. Gli eventi di quei giorni sono stati oggetto di una maxi-inchiesta federale, il Russiagate, volta a fare luce su chi, come e perché uomini di Mosca avrebbero hackerato i servers interni del Comitato nazionale democratico e reso pubblico un gran numero e-mails, presumibilmente per screditare la candidata presidenziale Hillary Clinton.
L’influenza di Kljušin implica verosimilmente che egli può avere accesso a documenti esclusivi e super-riservati che potrebbero costituire la “pistola fumante” delle interferenze russe nel processo elettorale statunitense. Materiale in grado di provocare un terremoto politico-giudiziario con epicentro a Washington e onde fino a Mosca. E proprio nella capitale russa, secondo alcune indiscrezioni, l’estradizione di Kljušin è stata subita come uno smacco a causa del quale potrebbero cadere (metaforicamente) alcune teste nell’intelligence.
Che l’imprenditore possa sapere qualcosa lo dimostrano comunque almeno un paio di circostanze: in primis la collaborazione tra M-13 e GRU, i servizi segreti militari di Mosca – sotto l’egida dei quali opererebbe il temibile gruppo di cyberspionaggio “Fancy Bear” (o APT28) ritenuto responsabile dell’hackeraggio dei dem. In secondo luogo, tra gli impiegati di M-13 figura Ivan Ermakov, ex spia del GRU già noto agli inquirenti statunitensi: nel solo 2018 è finito per ben due volte nella lista degli accusati, prima per la questione Russiagate, e poi per gli attacchi hacker alle istituzioni anti-doping dopo l’esclusione della Russia dalle competizioni olimpiche. Come il suo capo, anche Ermakov è accusato dal procuratore del distretto del Massachusetts per essersi intrufolato abusivamente nei sistemi informatici delle società quotate.

Se, però, Ermakov rimane ancora a piede libero in Russia (insieme agli altri tre indagati per insider trading: Nikolaj Rumiancev, Michail Irzak e Igor Sladkov), un pezzo grosso come Kljušin è finito dietro le sbarre. I russi avevano provato a farlo tornare a Mosca, aprendo un fascicolo per frode contro di lui allo scopo di farlo rimpatriare e sottrarlo alla giurisdizione straniera. Tuttavia, il trattato di estradizione in vigore tra Berna e Washington (in vigore dal 1990) ha consentito al Dipartimento di Giustizia di far trasferire Kljušin in America del Nord in temi brevissimi.
Non è escluso, peraltro, che nella vicenda non possa esserci perfino lo zampino dello stesso Kljušin e del suo avvocato svizzero Oliver Ciric. Appena dopo che la Corte Suprema svizzera aveva bocciato l’appello contro l’estradizione dell’imprenditore, il legale svizzero ha infatti perso tempo utile per presentare ricorso alla Corte europea dei diritti umani. Di conseguenza, la petizione di Ciric alla CEDU è arrivata negli uffici della CEDU il 22 dicembre, ossia quando il suo assistito era già in un carcere bostoniano. I servizi russi sospettano che Kljušin possa aver deciso di fare la “gola profonda” e collaborare con Washington, facendo apparire l’estradizione come un errore del legale. Un’ipotesi da spy story alla James Bond. Che però poi non è troppo fantasiosa, dato che proprio i servizi segreti britannici (MI5 e MI6) avevano già approcciato Kljušin nel 2020 all’aeroporto di Edimburgo, chiedendogli di collaborare e di fornirgli il suo numero di cellulare. Un anno prima, nel sud della Francia, era invece stata la CIA a “flirtare” con il milionario.
Tuttavia, c’è una circostanza che rende quantomeno inverosimile l’ipotesi che Kljušin sia sia consegnato spontaneamente agli statunitensi: poche ore dopo l’arresto dell’imprenditore a Sion, la famiglia di Kljušin ha infatti fatto ritorno a Mosca. Disertare lasciando i propri cari alla mercé di inevitabili ritorsioni non è esattamente ciò che si definirebbe un piano perfetto.
Kljušin, dal canto suo, nega di aver mai accettato di collaborare con l’intelligence dei due Paesi. Che sia vero o no, affermare il contrario lo avrebbe di fatto messo nella stessa condizione dell’ex spia Sergej Skripal’, avvelenato (quasi a morte) dopo aver tradito Mosca e aiutato i servizi segreti di Sua Maestà.
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