Accadrà quello che altre volte è accaduto. Dei Montagnard, la rocciosa popolazione di fede cristiana schierata con gli Stati Uniti al tempo della guerra in Vietnam, e che per questo ha pagato e paga prezzi altissimi, si ricorda qualcuno? E dei tibetani che un tempo si immolavano col fuoco, disperati perché nessuno, a parte rari campioni dei diritti umani come Richard Gere o Marco Pannella, ne raccoglieva il grido di dolore? Ma si possono citare anche le fiere guerrigliere curde: per settimane idolatrate da settimanali patinate. Hanno lottato contro i fanatici dell’ISIS, lottano ancora. Ma dove, come, chi? Sono state comunque tradite due volte, quelle ragazze e quel popolo: prima usati, poi dimenticati.
Accadrà anche per gli afgani, i tanti abbandonati alle grinfie dei Taliban, il cui pregio (si fa per dire), è di fare quello che dicono, anche se non dicono quello che fanno. Dunque, la sharia, il burqa, l’obbligo della barba, niente musica, delitti e violenze contro gli oppositori…

Nella provincia di Herat, dove ha operato il contingente italiano, c’è un edificio blu, una sorta di cubo. E’ una scuola intitolata a Maria Grazia Cutuli, l’inviata del Corriere della Sera uccisa in un’imboscata il 19 novembre 2021 assieme a Julio Fuentes di El Mundo, Azizullah Haidari e Harry Burton di Reuters. In quella scuola studiavano un migliaio di ragazzi, maschi e femmine insieme. Fino a poco tempo fa. Di quella scuola resteranno fotografie ingiallite.

Già sbiadito il ricordo di personaggi come Danish Siddiqui, fotoreporter, 41 anni, responsabile dell’ufficio indiano dell’agenzia di informazione Reuters, vincitore di numerosi premi internazionali fra cui il Pulitzer: ucciso nel luglio scorso, mentre copre l’avanzata talebana nel Sud del Paese insieme alle truppe di Kabul. Siddiqui segue su mezzi blindati uno commando delle Forze speciali afgane dirette lungo il confine meridionale con il Pakistan. Intervista un commerciante del luogo durante una tregua degli scontri; la sparatoria improvvisa riprende, una tempesta di fuoco, sul campo giacciono Siddiqui e un ufficiale afgano. Il giornalista era noto per i suoi impressionanti reportage da luoghi rischiosi. “Scatto per la gente comune che vuole vedere e sentire una storia da un luogo in cui non può essere presente”, disse tre anni fa, quando vinse in team con un altro reporter “Reuters” il Pulitzer per aver documentato il dramma dei musulmani Rohingya in Myanmar. Racconta un collega, Rahul Bhatia: “Le notizie non erano solo notizie per lui. Vedeva le persone dietro e voleva farle sentire”.

Ora in Afghanistan sono tornati a comandare tagliagole fanatici e barbuti il cui capo sembra essere un mullah chiamato Haibatullah Akhundzada. Pericoloso come tutti coloro che si ergono a “guide supreme”. Akhunzada è indicato come ‘za’eem’ o ‘rahbar’, entrambi i termini significano ‘leader’, titolo teocratico simile a quello del capo di stato iraniano, Ayatollah Ali Khamenei”, scrive il New York Times.
Presto dimenticheremo: smetteremo di provare sentimenti di rabbia o indignazione, cederemo all’indifferenza e alla rassegnazione: così è, così è stato, così sarà. Sempre amaramente attuale il sermone del pastore Martin Niemoller:
“Quando vennero per gli ebrei e i neri, distolsi gli occhi. Quando vennero per gli scrittori e i pensatori e i radicali e i dimostranti, distolsi gli occhi. Quando vennero per gli omosessuali, per le minoranze, gli utopisti, i ballerini, distolsi gli occhi. E poi quando vennero per me mi voltai e mi guardai intorno, non era rimasto più nessuno...”.