Derek Chauvin, agente della Polizia di Minneapolis, è stato condannato per l’omicidio di George Floyd, il ragazzo afroamericano arrestato, per avere detenuto una banconota da 20 dollari falsa; quindi, fatto lentamente morire sotto lo sbirresco ginocchio di quello.
Sentenza ampiamente discussa, e giustamente considerata segno di una verità conseguita. Perché la Polizia di Stato che uccide un uomo disarmato, e sottoposto alla sua formale potestà è un assoluto: un assoluto negativo. Sancirlo, con la dignità di un giusto processo, dunque, è stato un bene: un’affermazione di civiltà.
Dobbiamo chiederci se tutto questo sia stato capito, però. Che la morte “per mano dello stato” sia un assoluto, e un assoluto negativo, significa che è un male in sé. Il maggiore dei mali politici. In quanto intacca mortalmente la radice prima di una comunità; vale a dire, il patto per cui si attribuisce soltanto “ad alcuni”, “monopolisticamente”, “il potere di coercizione”. La chiamiamo Autorità, legittimata ad usare solo quel po’ di controveleno, necessario e sufficiente a neutralizzare il veleno di una temuta violenza generale e incontrollata. La “violenza legale” (il Leviathan “buono” di Hobbes) è concepita come un vaccino.
Non appaia precisazione superflua. Questo “male in sé”, infatti, spesso viene frainteso. E la giustizia di una decisione come questa può risultarne vanificata: il suo senso, perduto.

Con ogni evidenza, l’assoluto negativo che ha finito George Floyd era “mosso” da una spinta razzistica. Ma quando ci si concentra sulla “motivazione”, invece che sull’atto, la battaglia è già perduta. Finché ci sarà anche uno solo, il quale creda che la “motivazione” dell’abuso sia il problema, e non “la struttura”, la “possibilità istituzionale”, comunque motivata, dell’abuso stesso sarà eterna. Bisogna abituarsi all’idea che “Ordine” e “Forza” siano in latente e insuperabile conflitto: e che l’Ordine decide della Forza, e non viceversa. Meno manette, meno galere: più libri, più scuole.Meno Forza, più Ordine. Più Forza, meno Ordine.
Questa, purtroppo, per quanto sacrosanta, è un’acquisizione difficilissima, più di quanto s’immagini. State a vedere.
Consideriamo brevemente altri luoghi, altri nomi. Non Minneapolis, ma Ferrara, Roma. Federico Aldovrandi, Stefano Cucchi. Casi analoghi. Si può supporre che ci sia sicuro accordo, sentimentale e intellettivo, fra chi ha rilevato l’abominio su Floyd, e chi, qui in Italia, ha contestato e combattuto un abominio tanto somigliante a quello. Sebbene, la “motivazione” in questi altri “assoluti negativi” non sia stata razzistica.

Eppure, deve essercene stata una potente, in questi due altri casi, se ha potuto sostenere atti e volontà omicide. Probabilmente, una sorta di “rispetto di sé”, di “un sé” aberrato da un potere coercitivo ridotto a trastullo autoreferenziale; e, perciò, rabbiosamente sgomento di cogliere una volontà non sottomessa: da sottomettere, allora, e furiosamente.
Fin qui, l’insidia della “motivazione” non appare.
Ma proviamo a fare un altro nome, a spostarci ancora, a risalire nel tempo, a regredire. Ad esempio: 1985. Palermo, Salvatore Marino. “I fatti della Questura”. Acqua e sale. E altro. Caldo. Cosa Nostra che uccideva “colleghi” a ripetizione (Montana, Cassarà). Molti magari nemmeno ricordano più (speriamo che ricordino, invece, o che abbiano almeno studiato, letto).
Ed eccoci al punto: quel teorico “uno” che, giustamente offeso dalla morte di quei primi tre ragazzi, non si senta però offeso allo stesso modo da quella del quarto, o non con la stessa intensità emotiva, “perché era un mafioso”, o perché “erano tempi difficili”, eccetera, sarebbe la chiara dimostrazione che il martirio di Floyd, e degli altri che gli assomigliano, non sono stati realmente compresi. Che si è risolto “l’assoluto negativo” nella “motivazione”, ignorando ciò di cui consiste: la “struttura” di un potere, troppo “potente”, per non trascendere, perché la sua misura non diventi dismisura, il controveleno eccezionale, ordinario, quotidiano veleno.
Abbiamo supposto che sia uno solo, ad avere idee così confuse nel Bel Paese: perché ad una malapianta basta un seme, e perché contava fissare il principio.
Tuttavia, a giudicare dal “discorso pubblico” prevalente; da come, negli ultimi decenni, si è venuto allevando in Italia, una generazione dopo l’altra, un conformismo ossessivo e ossequiante verso tutto quanto concerne il potere coercitivo, e interdittivo e preventivo, è evidente che qui non abbiamo un problema di germoglio: ma un’intera selva, nerboruta e soffocante.
Restano ancora due differenze, non minime, fra la vicenda americana e le nostre. Sia chiaro: negli Usa ci sono fitte e molteplici questioni, tuttora aperte, sul “sistema”. Nonostante la complessità del quadro, però, queste differenze rimangono, e vanno annotate.

La prima, è che dall’omicidio Floyd alla condanna di Chauvin (licenziato il giorno dopo l’arresto, coevo all’omicidio, e che ora rischia fino a quarant’anni di reclusione), sono passati 11 mesi. E nessuno ha potuto sostenere che non abbia avuto un giusto processo.
Per Marino, dopo cinque anni, si ritenne una “violenza privata” (una cosa a metà fra una spintarella e un “bau!”) e, così, avviata alla dissolvenza di un decorso giuridico benevolo. Per Aldovrandi, dalla morte alla sentenza definitiva, il processo è durato sette anni. Per Stefano Cucchi, morto nell’Ottobre 2009, nonostante siano stati celebrati due processi (per omicidio colposo, a carico di agenti penitenziari e medici ospedalieri), la prima sentenza, a titolo di omicidio preterintenzionale (qualcosa di più della colpa, cioè, non-volontà; ma meno del dolo), è intervenuta dopo dieci anni; e c’è in corso ancora un processo per depistaggio, avviato a fine 2019. Queste “durate” sono, irrevocabilmente, ingiuste in sé.
La seconda differenza, è che, a Minneapolis, dopo un mese hanno smantellato l’intero Dipartimento di Polizia. Da noi, non si smantella mai niente, di fronte a nessuna nequizia; nemmeno la Magistratura del “Sistema-Palamara”.