Sembra di essere tornati indietro di mesi. Dopo l’ultimo bollettino giornaliero emanato dal Ministero della Salute, che attesta 8.804 nuovi contagi a fronte di 162.932 tamponi, è esplosa una nuova bomba.

Il presidente della Campania De Luca ha firmato un’ordinanza con la quale ha chiuso, a partire da domani, scuole e università, fermando anche matrimoni, comunioni, battesimi e feste private. Per ristoranti e pub, invece, ha imposto il divieto di asporto dopo le 21. A livello nazionale, il Premier Conte è ancora indeciso e poco chiaro quando gli si accenna la parola “lockdown”. Qualche giorno fa lo escludeva totalmente, poi ne ha ipotizzato una versione ridotta isolata ai soli casi critici e infine ha passato la palla al popolo. “Io non faccio previsioni – ha dichiarato – ma penso alle misure più idonee, adeguate e sostenibili per prevenire un lockdown. In ogni caso, molto dipenderà dal comportamento dei cittadini”.
In rete e su molti organi di informazione tornano a vedersi paragoni con il passato. Più di 8.800 contagi, mai così tanti in Italia, nemmeno a marzo. Il confronto, però, è inadeguato. Vediamo i numeri. Il 21 marzo, universalmente riconosciuto come giorno di picco della prima ondata, si sono registrati 6.557 nuovi casi, con 793 nuovi decessi. I ricoverati con sintomi erano 17.708, mentre la terapia intensiva era occupata da 2.857 persone.
In quei giorni, i risultati dei tamponi davano un positivo su quattro, mentre ad oggi l’indice è del 5,4%. Da qui, una conclusione molto semplice: i 6.557 positivi di fine marzo non possono essere comparati con quelli attuali. Erano molti di più, ma il sistema sanitario non era ancora in grado, come invece ora fa, di scovare gli asintomatici e i paucisintomatici, ovvero coloro che presentano soltanto qualche colpo di tosse secca, febbre al di sotto di trentasette e mezzo che dura uno o due giorni e un generale senso di stanchezza. A marzo, infine, il 24% dei positivi versava in situazioni severe e il 4% finiva in terapia intensiva. Al momento, i numeri ci raccontano di un 5,8% di casi severi e di uno 0,6% in terapia intensiva. Negli ultimi trenta giorni, come ci ricorda il report stilato dall’Istituto Superiore di Sanità, circa il 70% degli individui che contraggono il virus da 0 a 69 anni risultano asintomatici o paucisintomatici. La media d’età dei contagiati, sempre considerato quest’ultimo lasso di tempo, è di 42 anni.

Tema ricorrente tra la moltitudine di discorsi che gravita attorno al virus è anche quello dei decessi. Ad oggi, sono 36.372 i morti per coronavirus in Italia. Un interessante report pubblicato il 4 ottobre dall’ISS ci consente di capire meglio chi siano i pazienti caduti sotto la morsa del covid. Innanzitutto, l’età media: dall’inizio dell’epidemia fino alla prima settimana di luglio è andata aumentando fino a raggiungere gli 85 anni. Poi è calata leggermente e oggi si attesta sugli 80. Parlando delle patologie pregresse, invece, i dati si sono ottenuti studiando 4.190 deceduti per i quali è stato possibile analizzare le cartelle cliniche. Il numero medio di patologie osservate in questa popolazione è di 3,4. Complessivamente, 158 pazienti (3,8% del campione) presentavano 0 patologie, 568 (13,6%) 1 patologia, 841 (20,1%) 2 patologie e 2623 (62,6%) 3 o più patologie.

In sostanza, fare paragoni con i momenti critici di fine marzo, ad oggi, non ha fondamento. I numeri non vanno presi singolarmente e in senso assoluto, ma sempre inquadrati in un contesto più ampio e, soprattutto, visti in percentuale. La curva epidemiologica sta salendo, è indubbio. I dati, però, non giustificano l’ipotesi di scenari apocalittici. Come raccomanda il governo, occorre prudenza e rispetto delle norme. È una frase che sentiamo ripetere da mesi e scriverla sembra quasi una fastidiosa banalità. Niente panico, il virus non è più un nemico sconosciuto e l’intero sistema sanitario è molto più preparato, esperto e capace di affrontare la minaccia. I contagi aumenteranno, ogni giorno di più, ma sono i medici a consigliarci di non cadere vittima del panico. A maggio si diceva “dovremo imparare a convivere con il virus”.
Perché oggi non ce lo ricordiamo più?
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