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September 14, 2020
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Le tragedie di Willy e Maria Paola e il vuoto culturale in cui siamo sprofondati

Ragazzi non in grado di distinguere ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è giusto e ciò che non lo è.  Un regresso culturale di cui siamo tutti colpevoli

Alina Di MattiabyAlina Di Mattia
Le tragedie di Willy e Maria Paola e il vuoto culturale in cui siamo sprofondati

L'omaggio a Willy con la maglia della Roma nel murales dell'artista Harry Greb

Time: 6 mins read

Il cambiamento storico-sociale avvenuto negli ultimi decenni ha oltrepassato del tutto il confine tra ciò che è lecito e ciò che non lo è, e ha imposto valori irreali che mal si coniugano con ciò che nell’accezione comune rende l’uomo diverso da un animale.

La mancanza di istruzione, il vuoto culturale abissale in cui è sprofondata la società, la scuola, insieme alla famiglia ormai notoriamente assente e che non fornisce più i buoni esempi che hanno fatto crescere le generazioni del secolo scorso, hanno lasciato dietro di sé giovani sempre più ignoranti, disinteressati alla loro crescita spirituale, alla loro formazione, al loro stesso futuro. Ragazzi non in grado di distinguere ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è giusto e ciò che non lo è affatto.  Un regresso culturale senza precedenti.

La volgarità e la nullità hanno forgiato nuovi e discutibili personaggi televisivi e social e, di conseguenza, i loro fan che imparano a vivere le loro giovani esistenze alla stregua dei loro influencer: da protagonisti del nulla. Sessismo, bullismo, maleducazione e soprattutto aggressività che sfocia in violenza è quello che ne esce fuori.

Proprio in questi giorni due brutte vicende, in Italia, stanno scuotendo l’opinione pubblica.

Sul pestaggio a morte del giovane Willy Fonteiro Duarte è ormai stato scritto di tutto.

La storia è nota. Quattro ragazzotti di provincia, quattro spacconi dediti alla bella vita sull’esempio di rapper, calciatori o programmi televisivi stile ‘Uomini e Donne’ che generano fenomeni e tendenze (che per quanto mi riguarda andrebbero immediatamente censurati insieme al linguaggio triviale che divide et impera ovunque),  esperti peraltro in arti marziali, massacrano di botte un ragazzo di 21 anni fino ad ucciderlo. Un bravo ragazzo, uno dei pochi che fanno l’eccezione, con un futuro brillante davanti a sé. 

I ragazzi accusati dell’assassinio d Willy Monteira Duarte

Infami, bestie, arroganti, mafiosi, vengono definiti i suoi assassini. Già, mafiosi. Vite spesso banali che trovano un senso nel  turpiloquio, nella ‘coattaggine’, nella sopraffazione dell’altro per creare il proprio attimo di gloria. ‘Gomorra’ docet.

Qualcuno ha puntato sul razzismo, ma qui il razzismo c’entra ben poco. Il colore della pelle di Willy non ha nulla a che fare con tanta bestialità.

“Tutti sapevano. Erano violenti, erano delle furie”. Dicono infatti a Paliano dei quattro ragazzi accusati dell’assassinio. Denunce per risse, lesioni personali, spaccio, botte ad un vigile che aveva chiesto a uno di loro di indossare la mascherina.

Eppure nessuno ha fatto nulla.

Quei ragazzi erano un problema per la comunità già da tempo, però nessuno ha mosso un dito per evitare una tragedia annunciata. Quasi sicuramente per evitare ritorsioni in uno Stato che lascia da soli i suoi migliori cittadini. Lo stesso motivo che spinge tanti a non denunciare soprusi e vessazioni, a non aiutare per chi è in difficoltà: la paura.

Hanno scritto chi sono, come si chiamano, che vita fanno, anzi, che vita non fanno, chi li ha educati. E qui è il punto. È  fin troppo facile scaricare la colpa soltanto sui ragazzi. E pare banale accusare i loro genitori. Ma se gli obiettivi di vita di un giovane sono i muscoli per apparire, comandare, seminare terrore, spaccare la faccia a destra e  a manca, guidare auto di lusso e condurre una vita agiata senza lavorare, qualcosa è andato storto nella sua in/educazione.

Dietro un comportamento violento, si sa, c’è quasi sempre una situazione di disagio, persone insicure e piene di complessi che usano  l’aggressività per emergere nel gruppo, nella comunità di appartenenza, come quella di Paliano. Ma c’è anche molta, molta ignoranza.

Mentre piangiamo Willy, ecco che a Napoli Maria Paola Gaglione, una bella ragazza di appena vent’anni, muore per mano del fratello che non accettava la sua relazione con un trans.  Famiglie che nel 2020 non sono culturalmente preparate ai cambiamenti sociali, alla vita, al mondo. Che non hanno senso civico. Già, l’ignoranza.  Dicevamo l’istruzione…

Maria Paola Gaglione

Ragazzi illusi e anestetizzati dalle chimere del web e della TV, confusi e senza conoscenza, che non vengono aiutati a incanalare la  rabbia in modo costruttivo perché i genitori non sanno come aiutarli o non hanno il tempo per farlo, e che sfogheranno le loro frustrazioni personali con i più deboli. Colpa dei genitori, certo, che davanti ad un fallimento di un progetto di vita andrebbero rieducati anche loro, ma è comunque troppo spicciativo additarli come gli unici cattivi educatori.

La verità è che siamo tutti colpevoli: lo Stato, la Scuola, la Famiglia.

Uno Stato totalmente assente che non garantisce la giustizia, in cui si sbaglia e non si paga mai o si paga troppo poco o, ancora peggio, pagano sempre le persone sbagliate; una Scuola depauperata e in cui è stato concesso ai genitori di mettere in discussione l’operato degli insegnanti, proprio coloro che dovrebbero intervenire laddove la famiglia abbia fallito e, per finire, la famiglia stessa che avrebbe il sacrosanto dovere di insegnare agli uomini del futuro il rispetto per se stessi e per gli altri.  Per ogni essere vivente.

Quello che è successo a Willy e a Maria Paola è il fallimento eclatante di una società malata, ignorante, illetterata, una società che punta tutto sull’apparenza, sui soldi, sul successo facile e senza sforzi o sacrifici,  che ha cancellato l’educazione all’empatia e  alla compassione. È  il  fallimento di tutti, del ruolo genitoriale, degli educatori, dei mass media, di chi avrebbe potuto e dovuto intervenire facendo la differenza, salvando una vita e molte altre ancora.

La madre dei fratelli Bianchi: “Non giudicate i miei figli dalle foto“. No, in effetti noi li giudichiamo da quello che hanno fatto prima, durante e dopo, e da tutto quello che un genitore, in primis, non è stato in grado di fare, dai no che non è stato in grado di dire a quei figli. I principi, del resto, sono sempre figli delle regine.

“Hanno bevuto, hanno fatto casino, hanno brindato, hanno ruttato, e sono ripartiti sgommando col Suv, come cani che hanno appena pisciato su un territorio nuovo e se ne vanno soddisfatti.” Dichiarerà il gestore di un locale visitato dai quattro una mezz’ora prima dell’assassinio di Willy.

Non erano uomini, erano caricature di loro stessi, ma nessuno ha mai avuto il coraggio di dirglielo, neppure la madre. Mai fino ad oggi, che sono dietro le sbarre finalmente innocui.

Uno di loro sta diventando padre. Mi chiedo che padre possa essere uno che, insieme ad altri tre, picchia un ragazzo esile e senza difese fino a farlo morire.

Intanto i social sono pieni di slogan. Inutili slogan per un popolo che si illude di risolvere i problemi del mondo con le parole, con le frasi fatte, con i lumini in bacheca. Tra qualche giorno, vedrete,  si spegneranno le luci anche per questi poveri e sfortunati ragazzi. “Je suis Willy!” è sufficiente ad alleggerire le nostre coscienze.  Avanti un altro! Nella società  3.0 anche la morte è usa e getta.

Per Willy, che ha dimostrato di essere molto più uomo di quei balordi, per Maria Paola che ha creduto nell’amore, quello vero, per loro c’è un posto in paradiso – per chi ci crede. Gli altri invece, i duri, chiedono di restare isolati in carcere. Hanno paura di ritorsioni. Sanno che il loro inferno è appena iniziato. 

Chi può intervenga prima che questo processo di abbrutimento diventi irreversibile e conduca alla fine di ciò che di umano ci resta. Il male va riconosciuto e preso di petto.

Qualcuno disse che “parte della malattia consiste nell’inconsapevolezza di essere malati”.  In effetti, il medico pietoso ha sempre fatto la piaga purulenta. 

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Alina Di Mattia

Alina Di Mattia

Artista del vecchio mondo, scrittrice del presente, Alina Di Mattia è nata nel cuore d’Italia e vissuta con il mondo cucito addosso. Si è occupata della produzione e della comunicazione di grandi eventi istituzionali e culturali ed è stata promotrice di campagne di sensibilizzazione sociale. All'attività artistica e manageriale ha affiancato quella di giornalista freelance. Il suo motto preferito: “Le ali per volare, le radici per non perdersi mai”. Alina Di Mattia is an Italian journalist, blogger and author with over thirthy years of experience in Media and Communication. She has dealt with Music and Show Business, press office and promotional activities, special events with public Administrations, and has promoted social awareness campaigns. Her favorite motto: “Wings to fly, roots to never get lost”.

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